In Italia la progressiva accessibilità digitale dei film in formato ridotto, dei videotape d’artista e dei materiali cartacei correlati (note di lavoro, schemi progettuali, epistolari ecc.), nonché lo studio degli archivi in cui sono stati conservati, rendono oggi possibile ricostruire su base documentale l’emergere, tra gli anni Sessanta e i primissimi anni Settanta, della pratica artistica del video analogico e, al contempo, evidenziano come questa da un lato interessi i contesti del Cinema d’artista e del Cinema indipendente e, dall’altro, si estenda agli ambiti dell’Arte povera, della Conceptual art e della Pop art. Su questa base, nel campo della riflessione critica, è possibile constatare che l’affiorare mediale del “video” – come, seppur diversamente, avevano già fatto la fotografia e il cinema – ha messo in discussione tanto il rapporto tra arte e tecnologia quanto la relazione tra i quadri teorici e le modalità operative da cui discendono definizioni, tassonomie e lessicografie storicamente connotati. In tale prospettiva, l’obiettivo che qui ci si pone concerne la descrizione e una prima messa a fuoco dell’emergere della “video arte” in Italia a partire da quella che, in modo forse troppo semplificato, è definibile come fase “prevideo”. Un periodo breve in cui la cronologia degli eventi diviene importante non certo per definire primazie, ma per evidenziare – tra le pratiche – le opere, i discorsi teorico-critici, i progetti espositivi, le loro connessioni, il loro essere intercomunicanti o il loro scorrere parallelo. Si cercherà, dunque, di ricostruire l’esordio della “video arte” in chiave storiografica, tracciandone la genealogia attraverso gli apparati documentali dei principali progetti espositivi, delle pratiche artistiche e delle opere in videotape. Allo stato della ricerca d’archivio, le tracce documentali rivelano un nesso peculiare tra “performatività” e “videotape”. Questo è il fil rouge che percorre il periodo preso in esame. Già attiva in certo cinema d’artista, la dimensione performativa si intensifica e potenzia attraverso il dispositivo video secondo la modalità del circuito chiuso, attraverso la quale si attesta in Italia, tra il 1969/1970 e il 1971, la prima sperimentazione del videotape in ambito artistico. Si tratta di ricerche – la cui manifestazione è, appunto, performativa e la cui matrice è concettuale – che mettono in discussione, trasformandole, le idee stesse di opera e di esposizione. Non solo. Nella contingenza storica e socio-culturale del ’68, le profonde trasformazioni prodotte dalle pratiche dell’arte (concettuali, pop, poveriste, cinetiche e programmate, performative) impattano il dispositivo della mostra, i luoghi dedicati alle esposizioni e, segnatamente, le gallerie che divengono uno spazio mentale, un campo aperto alla progettualità degli artisti. Il carattere “concettuale” delle loro azioni performative e del “tempo reale” in cui queste processualmente accadono, si mostrano, si danno a vedere e svaniscono; la loro documentazione (fotografica, cinematografica e videografica), dunque, assume una funzione peculiare perché avviene istantaneamente e simultaneamente agli eventi/atti artistici. La documentazione si sovrappone e, insieme, prende a essere una dimensione espansiva dell’atto artistico piuttosto che una dimensione suppletiva. Su questa base si tenterà un primo riesame critico di come, su un doppio binario pratico-teorico, con metodi e strumenti differenti operino tanto Luciano Giaccari (con lo Studio 970/2) quanto Gerry Schum (VideoGalleria). Si tratta, in particolare, di mettere in luce come il lavoro e la presenza di quest’ultimo in Italia risultino interconnessi ai cominciamenti delle pratiche video in ambito artistico. Infine si evidenzierà come, durante quel periodo, a partire da esperienze performative captate e registrate su supporti cinematografici in formato ridotto (8mm, 16mm, Super 8) e su un piano che ha implicato una forte progettualità curatoriale declinata in contesti espositivi quali musei, gallerie o spazi alternativi, si sia attivata una particolare attenzione verso il videotape (con tutte le specificità tecniche e i limiti delle tecnologie dell’epoca) in quanto mezzo espressivo e documentativo. Significativamente, quegli stessi progetti curatoriali prevedevano che le tecnologie allora all’avanguardia potessero venire variamente messe a disposizione degli artisti (si trattava in prevalenza di tecnologie Philips). Verranno presi in esame, in quanto eventi generativi della video arte italiana: la 3a Biennale internazionale della giovane pittura. Gennaio 70: comportamenti, progetti, mediazioni (curata da Renato Barilli, Maurizio Calvesi, Tommaso Trini, Andrea Emiliani che si tenne presso il Museo Civico di Bologna nel 1970); la 35a Esposizione Biennale Internazionale d’Arte del 1970 (diretta da Mario Penelope); Eurodomus 3/ Il Telemuseo (curato da Tommaso Trini a Milano nel 1970); Improvvisazioni su Videonastro VPL 6 IC, videoregistratore LDL 1000, telecamera mini-compact (coordinate da Francesco Carlo Crispolti nell’ambito del centro produzione di videotape della galleria Obelisco di Roma nel 1971); Circuito -----> Chiuso – Aperto (rassegna che si è tenuta ad Acireale nel 1971 curata di Francesco Carlo Crispolti e coordinata da Italo Mussa);Schifanoia-tv: “mezzo” aperto/opera chiusa (realizzata a Ferrara nel 1972 dal Gruppo OB di Milano).
Ricerche
Allo stato delle ricerche, tra i numerosi fil rouge che attraversano le pratiche artistiche nella fase immediatamente precedente alla diffusione e all’uso delle tecnologie del videotape, ve n’è uno in particolare che evidenzia la centralità della dimensione performativa e della corporeità e che è già osservabile nel processo di transizione dalla forma cinematografica a quella videografica. In Italia, l’uso del video in ambito artistico si dispiegherà pienamente solo nel corso degli anni Settanta; nondimeno i suoi prodromi si manifestano nel decennio precedente in certo cinema d’artista a carattere performativo e nel più vasto contesto del cinema indipendente italiano che, a sua volta, si relaziona a quello nordamericano1. Nel corso degli anni Sessanta, infatti, il processo di disseminazione del cinema underground nordamericano in Europa veicola e, insieme, incontra e interscambia nuove esperienze, sensibilità e controculture che già avevano messo al centro dei loro discorsi le questioni della corporeità, del genere, dell’azione performativa, dei comportamenti sociali.
In Italia, tuttavia, in ambito artistico l’interesse sembra concentrarsi sull’azione performativa senza particolari radicalità biopolitiche e pare piuttosto polarizzarsi sulla decostruzione della pratica artistica in sé, come testimoniano una serie di progetti espositivi della seconda metà degli anni Settanta2.Nondimeno, rispetto al periodo qui in oggetto, tale interesse, se analizzato in chiave multidisciplinare, evidenzia come, per vie diverse e minoritarie, abbia implicato l’uso del mezzo cinematografico quale strumento espansivo dei linguaggi e delle culture visuali senza istanze critiche radicali che non fossero quelle interne al mondo dell’arte, esprimendo “l’oltre” della pittura sia in termini generativi sia in modalità documentativa3. Quell’“oltre” presenta un carattere performativo, investe gesti, azioni, materiali e oggetti; si dispiega nel tempo e si estende nello spazio implicando (ma non necessariamente) la presenza spettatoriale in modalità live: esso modifica, quindi, i protocolli e i formati espositivi e prende ad utilizzare, in molti modi, la mostra in qualità di medium. Talvolta la dimensione performativa è, per così dire, intrinseca perché si dà o si produce filmicamente, talaltra, invece, viene registrata ed è oggetto di captazione di ciò che accade davanti al dispositivo di ripresa: la differenza consiste nel far diventare il mezzo partedell’azione performativa o nel far essere il mezzo strumento documentario di qualcosa che si pensa essere indipendente dalla presenza del mezzo stesso, ma che nondimeno fa leva proprio sulla sua forza di captazione.
Qui interviene la “scoperta” sperimentale del videotape in modalità circuito chiuso, locuzione utilizzata peraltro in modo decisamente polisemico dai curatori e dai critici. Il circuito chiuso è il campo d’innesco della performatività: basata su uno score concettuale, essa dischiude molteplici possibilità di improvvisazione/indeterminazione utilizzando le qualità intrinseche del dispositivo (istantaneità/simultaneità dell’azione e della visione o feedback).
È una questione, questa, che attiene all’uso del videotape, alle pratiche e ai discorsi teorico-critici sulle sue potenzialità espressive e sulla sua capacità di trasformare i modi percettivi, da intendersi non tanto in termini di transizione dal “cinema” al “video” quanto come “scarto” dal dispositivo-cinema al dispositivo-video; scarto che si manifesta attraverso differenti impieghi degli apparati mediali entro l’industria culturale e mediante la costruzione di inconsueti immaginari, di culture visuali inedite, di controculture, di nuove estetiche e di nuove sensibilità.
Già durante gli anni Sessanta l’uso della proiezione filmica e dell’esposizione di fotografie e diapositive assume nel contesto galleristico una dimensione installativa. Ad esempio, ancorché diversamente, Luca Maria Patella e Mario Schifano adottano quel modo di proiettare le immagini che Germano Celant definiva «a tempo effimero»: «[…], il primo usando immagini e scritte […] a carattere ideologico e mentale, […], il secondo estrapolando e ribaltando su una superficie dipinta o cinematografica scene televisive»4.
Nel contesto della mostra Fuoco. Immagine, Acqua, Terra (L’Attico, giugno 196795, curata da Maurizio Calvesi e Alberto Boatto, nelle pratiche degli artisti prendono forma aspetti performativi inerenti al gesto espositivo nel quale si evidenzia una riflessione che concerne la spazializzazione delle immagini-movimento e la temporalità dell’immagine: Schifano proietta i propri film Made in U.S.A e Silenzio (entrambi del 1967) su uno schermo-telone triplice posto sulla parete della galleria, «[…] di cui solo una sezione viene riempita»6; Umberto Bignardi presenta in forma installativa Rotor Vision omaggio ai pionieri del cinema (1966/1967)7 che, evidenziando la disposizione automatica dello scorrimento delle immagini, così viene descritto da Boatto:
[…] il tempo è rigidamente meccanico, scorre secondo lo scatto dell’obiettivo, non è tanto istante o successione, quanto scansione, ritmo spezzato; è ripetizione così che può ritornare al punto di partenza e ricominciare da capo […] annullarsi ogni volta ed ogni volta riprendere […]; […] l’adozione di un supporto cilindrico per le immagini fa sì che il flusso ritornante sia anche ruotante, concluso in sé, non possieda né inizio né fine, non entri più nemmeno in rapporto con una cornice statica. La macchina realizza l’infinito del tempo meccanico, per quanto affidato alla precarietà o alla consumabilità di ogni congegno8.
Non solo. Dai progetti espositivi, dai discorsi curatoriali e, soprattutto, dalle pratiche degli artisti emerge la connessione tra azione performativa e captazione filmica che si concreta in forma cinematografica secondo le modalità del “cinema d’artista”9. Esemplificativo è, in tal senso, il lavoro di Michelangelo Pistoletto. Si pensi, in particolare, all’azione intitolata Scultura da passeggio (1967) che ebbe corso nel contesto della mostra Con temp l’azione (dicembre 1967 – gennaio 1968)10 curata da Daniela Palazzoli in cui l’ambiente, dato oppure costruito, diviene campo esperienziale, ambito di ricerca, innesco di possibilità.La mostra– inaugurata simultaneamente negli spazi espositivi delle gallerie torinesi Il Punto, Gian Enzo Sperone e Christian Stein – si estendeva anche negli spazi urbani, lungo le strade che collegavano le diverse gallerie. Su tale dislocazione ed espansione spaziale intervenne Pistoletto. Egli collegò gli spazi interni della mostra con quelli esterni trasportando lungo le strade di Torino (a piedi, in auto) una scultura che aveva la forma di una grande sfera formata da giornali pressati (parte dell’insieme scultoreo Oggetti in meno). L’azione, che Pistoletto compì, tra gli altri, con Daniela Palazzoli, Tommaso Trini, Gian Enzo Sperone, Gilberto Zorio e Maria Pioppi, venne ripresa da Ugo Nespolo nel film Buongiorno Michelangelo (1968, 16mm, col., 18’)11. Nello spazio espositivo di Con temp l’azione, precisamentenella galleria Sperone12, tra le ante in vetro di una porta, Pistoletto posizionò la scultura Sfera di giornali. In seguito l’artistaripresenterà la stessa scultura, ma con differenti dimensioni, in altri contesti espositivi quali, ad esempio, Arte povera più azioni povere ad Amalfi (mostra curata da Germano Celant e da Marcello Rumma, 4 ottobre – 8 ottobre 1968)13 e la 3a Biennale internazionale della giovane pittura. Gennaio 70: comportamenti, progetti, mediazioni (curata daRenato Barilli, Maurizio Calvesi, Tommaso Trini, Andrea )14 a Bologna.
Sempre per la galleria L’Attico, nel dicembre 1968, Luca Maria Patella realizzò e proiettò SKMP2 (16mm, b/n e col. 30’)15: si tratta di un’opera filmica composta da quattro sessioni performative attivate in rapporto alla macchina da presa gestita da Patella ed eseguite da Eliseo Mattiacci, da Jannis Kounellis, dallo stesso Patella assieme a Rosa Foschi e da Pino Pascali. SKMP2, per la sua struttura ripartita in blocchi spazio-temporali autonomi – corrispondenti alle rispettive azioni performative – può essere considerato una sorta di “matrice” per la realizzazione dei videotape presentati a Gennaio 70.
Spazi
Qualche mese prima di Arte povera più azioni povere, a luglio del 1968, negli spazi di Studio 970/2 gestiti da Luciano Giaccari e Maud Ceriotti Giaccari – allora ubicati a Luvinate (Varese) e articolati in una cascina, nei prati e nel bosco circostanti – Daniela Palazzoli e Franco Quadri, tra gli altri, avevano partecipato attivamente al progetto 24 ore No Stop Theatre: un happening di ventiquattro ore che, sulla base di alcune ipotesi di lavoro condivise con gli artisti, investiva in situazioni aleatorie e in un flusso di manifestazioni espressive effimere (azioni, installazioni, proiezioni) sia le inter-azioni tra gli artisti stessi sia l’ambiente naturale e gli oggetti lì dislocati. Presero parte al progetto anche Luciano Fabro, Mario e Marisa Merz, Pierpaolo Calzolari, Alighiero Boetti, Gianfranco Brebbia, Gianni Colombo, Ugo Nespolo, Plinio Martelli. In termini progettuali e sul piano metodologico si tratta programmaticamente di un lavoro collettivo piuttosto che individuale16.
All’happening 24 ore No Stop Theatre era correlato un progetto, poi irrealizzato, dal titolo Televisione come memoria17che si basava sull’utilizzo di un complesso dispositivo videografico di ripresa/captazione e di registrazione degli eventi, immediatamente (ri)trasmessi su 24 monitor che andavano a comporre una sorta di “video wall”. Lo schema progettuale prevedeva che durante la prima ora 23 monitor trasmettessero simultaneamente in diretta ciò che accadeva e che veniva ripreso da un sistema multicamera18. Durante la seconda ora il secondo dei 24 monitor doveva ritrasmettere le immagini registrate nel corso della prima ora, mentre gli altri 22 continuavano a trasmettere in diretta e così via, processualmente, cosicché, di ora in ora, scorrendo il tempo, erano sempre più le immagini degli eventi trascorsi ad essere trasmesse e sempre meno quelle degli eventi live, sino a che, al termine delle 24 ore, sui 24 monitor passavano solo le registrazioni degli eventi intercorsi, inscritti su nastro magnetico e memorizzati in un contiuum temporale in cui si poteva assistere allo slittamento progressivo dalla diretta video (tratto distintivo, appunto, del dispositivo e del linguaggio del video) alla differita televisiva. (Sugli sugli scarti, sui delai temporali esperibili attraverso la dimensione videografica hanno operato e riflettuto Bruce Nauman, Allan Kaprow ecc.).Il progetto complessivo prevedeva l’uso del dispositivo video in circuito chiuso, ossia, come si dirà, la prima modalità d’uso del dispositivo video esperite in ambito artistico in Italia.
A 24 ore No Stop Theatreseguirono, tra il 1969 e il 1970/1971, altre giornate di happening aventi per soggetto la neve (Opere di neve,gennaio 1969), il fumo (Opere di fumo, maggio 1969) e il vento (InterVENTO, marzo 1970- marzo 1971)che, sul doppio registro operale e documentativo, trovarono anche una declinazione cinematografica restituita da un piccolo, ma significativo corpus di film in formato ridotto.
Rispetto al periodo “prevideo”, da una prima analisi dei materiali paratestuali attinenti ai progetti riguardanti 24 ore No Stop Theatre, Opere di neve, Opere di fumo e interVENTO (attualmente oggetto di studio contestualmente alla ricostruzione dell’archivio filmico, videografico e cartaceo di Luciano e Maud Giaccari) si evince una metodologia operativa che, a partire da un nucleo concettuale, prevedeva un lavoro collettivo. Tale lavoro si dispiegava, secondo il lessico di allora, in “manifestazioni” che vedevano impegnati artisti, critici e curatori e che, di conseguenza e intenzionalmente, esercitavano un’azione potentemente trasformativa sui protocolli espositivi perché davano luogo a «situazioni effimere, aleatorie e al massimo grado incontrollabili»19. InterVENTO, ad esempio, è presentato come «[…] una manifestazione della durata di un anno, da marzo 1970 a marzo 1971, avente per oggetto il vento in tutte le sue possibili accezioni». In seguito a una call, gli artisti venivano invitati (direttamente dallo Studio 970/2 o attraverso la mediazione di galleristi e critici) a inviare e condividere dei progetti e, dopo una selezione, a metterli in atto (preferibilmente all’aperto, in ambienti naturali o urbani); la documentazione delle situazioni e delle azioni performative, realizzata in più forme e con i mezzi più svariati – film 8 Super8 e 16mm, diapositive di qualsiasi formato, fotografie, registrazioni magnetiche e scritti – era programmaticamente inclusa. Seguiva, infine, la raccolta di tutti i materiali documentali a fini espositivi. La “prima” di InterVENTO si tenne a Milano nei giorni del 4, 5 e 6 giugno e fu inaugurata da un percorso attraverso le gallerie Diagramma e Toselli, che erano le sedi espositive e l’Onorato Workshop in cui vennero prodotte simultaneamente tutte le documentazioni: foto su pannelli, registrazioni di una serie di interventi sonori e di due concerti-vento20.
Nel complesso viene in luce come, a quelle date, nelle arti visive fosse attivo, in molti modi e per differenti vie, un interesse per la “temporalità” tale da investire e trasformare i formati espositivi (come, ad esempio, accadeva già in Con temp l’azione e diversamente in interVENTO); tale interesse concerneva il tempo quale elementointrinseco dell’azione performativa e inerente alle immagini filmiche.
Come si è detto, attraverso fonti d’archivio e i materiali filmici relativi a Opere di fumo e interVENTO è possibile desumere che le azioni performative sono state intenzionalmente rese oggetto di “documentazione” in un modo affatto particolare: gli interventi degli artisti in actu, infatti, sono stati captati/registrati/ cine-fotografati estemporaneamente da alcuni fotografi e film-maker lì convocati con i loro mezzi da Giaccari così che, come egli stesso sottolineava, «[…] l’esperienza vissuta veniva poi, sia pure indirettamente, moltiplicata […]»21. Portare a evidenza la centralità del processo di documentazione delle azioni performative la cui necessità operativa si introduce sin da subito nell’attività dello Studio 970/2 significa anche constatare come essa, a queste date, si produca ancora attraverso l’uso dei mezzi foto-cinematografici. I materiali cinematografici che stanno emergendo dall’archivio di Luciano Giaccari presentano, tuttavia, un forte carattere estetico e per questa via, indirettamente, assumono interessanti e inusitate valenze documentali circa le modalità operative degli artisti e i progetti messi in campo. In questi materiali il flusso delle immagini – di cui il gesto della ripresa è parte – modula le e insieme è modulato dalle azioni performative; al contempo, il montaggio interno configura dinamicamente le inquadrature inscrivendole sulla materia pellicolare captando così, in blocchi di spazio-tempo montati in macchina, le azioni performative dagli artisti.
Va rilevato, per inciso, che Luciano Giaccari riteneva che il cinema underground fosse «decisivo come fenomeno antecedente il video»22. Va evidenziato, inoltre, che Luciano e Maud Giaccari avevano entrambi frequentato leproiezioni organizzate a Milano da Franco Quadri23 e conoscevano il cinema underground nord americano.
Nella fase “prevideo” Giaccari riconosceva l’importanza del mezzo fotografico (usava la Rolleiflex) e cinematografico (utilizzava cineprese 8mm, Super8 e 16mm) sia in chiave, per così dire, “generativa” sia in modalità documentativa/restitutiva delle arti performative. Da un lato, dunque, in questa fase del suo lavoro si rende evidente la complessità del processo ideativo e dall’altro, sul piano realizzativo, emerge la dimensione metalinguistica dei mezzi fotografico/cinematografici che prefigura la transizione dal “cinema” al “video”24e che attiene propriamente all’inusitato potere di captazione delle azioni/accadimenti performativi che quest’ultimo ha.
Del cinema underground Giaccari ben comprende la complessità produttiva e la relativa indipendenza dall’industria culturale: il film-maker è operatore, montatore, regista-produttore, è quasi sempre proprietario della pellicola e spesso è anche attore/performer. Per lui era tanto evidente l’importanza del fattore produttivo da indurlo ad acquistare, nel 1970, per Studio 970/2 una struttura tecnologica dedicata appunto alla produzione, che egli definiva “sistematica”, di videotape d’artista e di videodocumentazioni di azioni performative (arte, musica, teatro, danza). Quel che emerge dai materiali cartacei dell’archivio è soprattutto la comprensione che Giaccari aveva dell’importanza della documentazione e, segnatamente, della “video-documentazione” per le pratiche artistiche con caratteri transeunti, performativi, concettuali. Tant’è che, sempre durante il periodo “prevideo”, Giaccari aveva preso contatto con alcune società specializzate per ottenere (con la formula pro bono) la disponibilità di attrezzature sia audio sia video per la registrazione di interVENTO e per «[…] la successiva programmazione […] in circuito chiuso TV» degli eventi ripresi. Al momento, tuttavia, in archivio non vi è traccia di materiali video riconducibili alle manifestazioni citate nel periodo che va dal 1968 al 1969-1970.
Nel contesto del Festival Music and Dance U.S.A (1972)25 sarà in particolare la collaborazione con Fabio Sargentini, presso la galleria L’Attico di Roma, a orientare in modo decisivo l’operato di Giaccari verso la videodocumentazione. Dalla verifica “sul campo” di come l’atto documentativo sottenda un processo interpretativo (di chi documenta sul documentato) scaturisce una riflessione che assumerà (nel 1972/1973) forma teorica con la nota Classificazione dei metodi di impiego del video in arte26 (di cui si dirà). Giaccari pone a tema la mediazione esercitata da chi compie la video-documentazione tra l’opera e il suo farsi attraverso il lavoro dell’artista. Ne discende che l’opera e il lavoro dell’artista non coincidono con la videoregistrazione, anche se quest’ultima ne è la “memoria televisiva”.
In tal senso, per Giaccari, mediare/documentare significa “riprodurre” l’opera dell’artista riducendo al massimo il margine interpretativo, anche se riconosce l’impossibilità strutturale dell’«obiettività integrale» causata sia dalle caratteristiche tecniche del video-recording sia dalla soggettività di chi documenta27.
La questione, dunque, è posta in termini di riduzione della “regia” e trova – attraverso l’esperienza progettuale e realizzativa di Gennaio 70 – un’elaborazione quasi normativa nei discorsi critico-teorici di Renato Barilli e di Maurizio Calvesi impegnati, da un lato, ad evidenziare lo scarto morfologico dal cinema al videotape e, dall’altro, a far risaltare la pressoché impossibile applicazione/ rielaborazione della tecnica del montaggio al video: quello che appare oggi uno dei limiti delle tecnologie dell’epoca, allora veniva percepito come un carattere proprio del mezzo videografico e del suo potenziale espressivo e linguistico.
Il punto di vista di Giaccari, tuttavia, si discosta sensibilmente dalle diverse e tra loro differenti prospettive critico-teoriche di Renato Barilli, di Maurizio Calvesi, di Tommaso Trini28 e anche di Vittorio Fagone che tutte, però, sostanzialmente convergono sul tema dell’automatismo del dispositivo video, sull’impersonalità della videoregistrazione e sull’assenza di “regia” che ne dovrebbe discendere. Come si dirà, questa, d’altro canto, è anche la linea direttrice delle argomentazioni di Gerry Schum in merito ai film (poi trascritti in video) Land Art (1969, 16mm, b/n, 38’) e Identifications (1970, 16mm, b/n e colore, 60’) che, tuttavia, se visti/letti con attenzione, rivelano un sottile scollamento tra l’“opera” e il “documento” evidenziando in modo cruciale la questione dell’autorialità29. Giaccari invece ha un’idea mostrativa della registrazione video: per lui il nastro è luogo di iscrizione, di memoria dell’azione performativa e, contemporaneamente, è anche un luogo espositivo. Da un lato egli pensa la documentazione con l’intento di ridurre il più possibile il campo interpretativo e, con esso, dunque, qualsiasi attivazione linguistica del dispositivo video attraverso il montaggio/mixaggio, come testimoniano le sue videodocumentazioni tanto monocamera quanto multicamera. Dall’altro lato, con l’adozione dei nastri in formato U-Matic, egli utilizza il “montaggio” come strumento per “mettere in discorso” selezioni di videodocumentazioni, con interventi di condensazione e di contrazione delle durate, secondo le pertinenze della Classificazione, con un intento espositivo: il nastro non è più né solo superficie d’inscrizione dell’evento performativo, ma diviene il luogo in cui quell’evento trova una reinscrizione mostrativa, una esposizione nel senso tecnico del termine.
C’è, in un certo senso, una sorta di prossimità con l’idea di “mostra televisiva” elaborata da Schum, anche se Giaccari non ha mai pensato al mezzo televisivo quale veicolo e luogo di diffusione/ricezione artistica che, per lui, era e rimaneva il museo.
Video-recording, no editing
Come ha sottolineato Gerry Schum nel contesto di Gennaio 70, il dispositivo televisivo viene direttamente implicato nel processo delle azioni degli artisti «senza la mediazione del film»30, differentemente da quanto accaduto con Land Art e da quanto accadrà con Identifications.
Il progetto della mostra era complesso per la contingenza storica31, per le differenti pratiche artistiche convocate, per la dimensione mutimediale scelta (che includeva la realizzazione e l’esposizione di videotape, la proiezione di film e diapositive, nonché la costruzione del catalogo stesso della mostra),per le tecniche esecutive delle opere, per la processualità e per la materialità/immaterialità delle opere esposte. Gli artisti invitati a prendere parte all’esposizione avevano la facoltà di scegliere se presentare opere materiali o concettuali da costruire in situ e/o di utilizzare il mezzo videografico. Il progetto Gennaio 70 prevedeva la messa a disposizione degli artisti, coadiuvati da équipe tecniche, di apparati tecnologici Philips per la generazione/registrazione delle loro azioni performative presso le gallerie di riferimento o nei loro atelier.
Il progetto, sul piano del video-recording, ha coinvolto diversi artisti – Giovanni Anselmo, Gilberto Zorio, Pierpaolo Calzolari, Mario e Marisa Merz, Giuseppe Penone, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, Jannis Kounellis, Luca Patella, Claudio Cintoli, Eliseo Mattiacci, Mario Ceroli, Luciano Fabro, Gianni Colombo, Gino De Dominicis – ciascuno dei quali si è impegnato a svolgere un’azione performativa, chi nel proprio studio, chi negli spazi della galleria cittadina di riferimento (galleria Sperone a Torino e galleria L’Attico a Roma) e in un lasso temporale che va dalla fine di dicembre del 1969 alle prime settimane del gennaio 1970. Come si è anticipato, tali azioni sono state pensate in rapporto alla loro captazione videografica e sono state supportate dal lavoro di team tecnici della Philips attivi a Torino, Roma e anche a Milano: nei laboratori milanesi della Philips, infatti, Gianni Colombo ha realizzato Vobulizzazione32.
Gerry Schum rilevava come, in quel contesto espositivo, i video fossero «direttamente ricavati dal lavoro degli artisti»33, alcuni dei quali egli coinvolgerà, qualche mese più tardi, nel progetto filmico Identifications. Detto altrimenti, Schum riteneva che la mediazione filmica e/o video non implicasse il lavoro dell’operatore-regista perché derivata direttamente dalle azioni degli artisti. L’impiego del videotape e del mezzo cinematografico si definiva in funzione di un’idea che l’artista volgeva in pratica e che «[…] già più o meno includeva il fatto che la riproduzione, mediante il mezzo filmico e televisivo, fosse parte della realizzazione»34.
A detta degli stessi curatori, nel complesso, il progetto espositivo di Gennaio 70 sembra mancare il proprio obiettivo, vale a dire la sperimentazione del dispositivo video nel campo delle arti visive – a causa sia dei già citati limiti delle tecnologie dell’epoca sia della non competenza degli artisti nell’uso delle stesse. Da qui discende la difficoltà di montare su nastro magnetico open reel le azioni performative.
La trasmissione delle opere in videotape sembrano essere state ripartite in due programmi (dalla durata complessiva di 120’) diffusi nello spazio espositivo secondo una temporalità ad anello: così si desume dal catalogo (stampato il 29 gennaio 1970) che, per quanto attiene alla sezione dedicata alla “Partecipazione italiana” riporta la seguente annotazione: «Nelle sale dell’esposizione funziona in permanenza un impianto televisivo a circuito chiuso che trasmette in due programmi la registrazione (sistema video-recording) di azioni, di comportamenti, esperienze degli stessi partecipanti, per una durata di circa due ore di trasmissione»35. Si attesta l’uso del videotape (nella sua derivazione, differenza e autonomia rispetto al medium televisivo) nell’ambito della ricerca delle arti visive.
Il catalogo, tuttavia, non dà notizia della composizione dei programmi che viene, invece, riferita in «Marcatrè» (nn. 3/4/5 pp. 144-145)36, in appendice al contributo di Barilli intitolato Video-recording a Bologna, dove vengono riportati l’ordine di successione, la sequenza cronologica di trasmissione dei videotape così come è stata indicizzata dall’autore ripartita (probabilmente) in due nastri, con la descrizione dell’azione performativa registrata. La documentazione fotografica dell’esposizione, tuttavia, testimonia la presenza di tre postazioni: su tre basamenti sono stati posti altrettanti monitor (definiti «apparecchi TV a circuito chiuso») dedicati alla riproduzione delle «registrazioni video».
Dei videotape in programma non si ha più traccia fisica. Delle azioni performative che vi si svolgevano non rimane che una descrizione reperibile nei resoconti critici della stampa specialistica di allora e, soprattutto, negli interventi di Renato Barilli, Achille Bonito Oliva, Maurizio Calvesi, Tommaso Trini37, dai quali prende avvio e forma una prima riflessione sull’ontologia del video-recording in relazione alla pratica performativa. Le argomentazioni di Barilli sono anch’esse volte a evidenziare i tratti pertinenti del «procedimento di video-recording» in rapporto all’azione performativa che, per il critico, è «durata pura» e «[…] non ammette tagli […] né mutamenti di angolazione». Così, dunque, veniva tematizzata l’inessenzialità del montaggio che, da un lato, concerneva la dimensione performativa tanto sul piano operale quanto sul piano documentale e, dall’altro, riguardava i limiti funzionali delle tecnologie dell’epoca (impossibilità di montare il nastro magnetico in assenza di strumentazioni adeguate)38.
Barilli metteva in evidenza le differenze tecniche39 tra il procedimento di ripresa cinematografico e quello del video-recording rilevando come esse fossero in grado di orientare le modalità d’uso e sottolineando la peculiare capacità del dispositivo video di “catturare” le durate, i punti di intensità, il transitorio, la contingenza di azioni fisiche, corporee, concettuali. Il video elettronico era, dunque, il mezzo ideale per “salvare” dalla dispersione le forme artistiche a carattere performativo, per poterle documentare e, per questa via, “conservare”40. Nell’argomentazione di Barilli veniva ribadita l’idea della negazione dell’intento estetico (impersonalità, neutralità) di chi effettua la ripresa video (ossia l’idea dell’azzeramento della “regia”). Su questa base, quindi, Barilli ha presentato la sezione video-recording di Gennaio 70 prestando tutta la sua attenzione alle azioni degli artisti e alle «varianti stilistiche» concernenti l’azione performativa in relazione all’uso o al non uso linguistico del mezzo. Dalla descrizione dei videotape viene in chiaro che soltanto Penone e Pistoletto si sono confrontati con il mezzo includendolo nel processo dell’azione performativa registrata; si evince inoltre come solo Simonetti e Colombo, con esiti diversi, abbiano utilizzato in termini generativi la tecnologia videografica per la realizzazione dei loro videotape. Il videotape realizzato da Simonetti per imperfezioni tecniche non è stato incluso nel programma espositivo.
In merito alla questione tecnico-espressiva dell’uso del videotape anche Maurizio Calvesi affermava: «[…] la funzione della registrazione video, che esclude il montaggio, è soprattutto quella di documentare nel modo più adeguato e anonimo questo nuovo mezzo espressivo che è l’“azione” dell’artista, senza trasformarla in un’opera di regia»41. Come si è anticipato, emerge in modo evidente l’idea che la registrazione sia un fatto automatico, impersonale e tale da escludere il montaggio: proprio questo aspetto, secondo Calvesi, costituiva il tratto caratterizzante del nuovo mezzo espressivo. Va da sé, lo si ripete, che in questo modo di pensare era sottesa l’intenzione di differenziare in modo netto la pratica videografica da quella cinematografica. La centralità dell’azione (happening, intervento sul paesaggio ecc.) intesa come opera, documentabile-restituibile con il mezzo dispositivo elettronico, concerne tuttavia quella capacità di presa diretta (che implica l’identità tra la durata dell’azione e la durata della ripresa) da sempre operante nel cinema e che, a quelle date, per quanto concerne il video, era ristretta dai limiti tecnologici di editing (l’indisponibilità dei banchi di montaggio). Quel che si tendeva a confondere, rispetto al cinema, è il rapporto distintivo tra narratività, narrazione e montaggio.
Del resto non a caso l’esposizione Gennaio 70 – nella «Sezione documentaria su alcuni aspetti della ricerca internazionale» – comprendeva la proiezione di Land Art di Schum, di Eurasienstab di Beuys (documentazione, 1968) e di Festival Danza Volo Musica Dinamite di Degli Espinosa (L’Attico 1969).
Barilli ha posto a tema, oltre che la capacità di iterazione e di stereotipia del dispositivo videografico, anche la questione dell’installazione dei monitor che, nello spazio espositivo, era stata disposta in modo tale che «[…] una rete di televisori accompagn[ava] il visitatore […] non lo lasci[ava] neanche un istante, lo riprend[eva] di stanza in stanza sotto il controllo e la fascinazione della sua onda sonora […]»42.
Il progetto curatoriale non è stato compiutamente realizzato43, nondimeno vi è sottesa la percezione, circostanza che Giaccari sembra aver compreso, che la registrazione non consiste in modo neutrale nella ripresa e nella trasmissione di eventi o di performance, ma implica, invece, una trasformazione o, più precisamente, come rileva Silvia Bordini, la produce.
Esposta al pubblico, la registrazione dell’evento diventa essa stessa un evento; l’azione transitoria, una volta fissata nell’immaterialità dell’immagine riprodotta, composta da un flusso vibrante di impulsi luminosi, si configura e si legge come un’altra opera, che tende ad acquisire modalità proprie; si modificano le relazioni tra osservatore e osservato, tra spazio e tempo, attraverso le potenzialità autoriflessive dello sguardo meccanico del video44.
Il circuito chiuso utilizzato in chiave espositiva rende possibile la «mostra per televisione» dalle declinazioni differenti (si pensi ai progetti di Schum): si tratta di un nuovo paradigma esperienziale sia per gli artisti sia per il pubblico specialistico o non specialistico45.
Per coinvolgere il pubblico non specialistico dell’arte, Tommaso Trini nel maggio del 1970 ha portato nel contesto di Eurodomus 3, a Milano, Il Telemuseo: si trattava di «un’esperienza artistica televisiva», definita «spettacolo mostra»46, allestita entro una tensostruttura, realizzata dalla Plasteco di Milano, sotto una cupola pressostatica «[…] di venticinque metri di diametro, in teli di PVC, bianca di fuori nera di dentro, con alla sommità un disco trasparente»47 (progetto dei designer Jonathan De Pas, Donato D’Urbino, Paolo Lomazzi).
In un ambiente immersivo, lungo il perimetro, erano stata posta una serie di televisori (impianti Philips Italia) e un grande schermo per la videoproiezione che, allo stato della ricerca, come attestano le fonti, veicolavano «tre diversi programmi»:
Sul primo, mandato in onda su dieci televisori, vi erano i brani (registrati sul luogo di operazione, in studio o all’aperto, per non invitare gli artisti sul posto e creare così una situazione artificiosa) di Ceroli, Cintoli, Mattiacci, Marisa Merz, Prini e Zorio, tratti dalle bobine video-recording della Biennale di Bologna, da precisare, – come sottolinea Ricky Comi nel recensire la manifestazione artistica de Il Telemuseo ideata da Trini –, non in base a criteri di scelta selettivi, bensì per il fatto che sono quelli che meglio hanno resistito all’usura.
[…]
Sul secondo, mandato in onda su altrettanti televisori, le sei azioni artistiche appositamente realizzate […] da Vincenzo Agnetti-Gianni Colombo, Gino Marotta, Henry Martin, Fabio Mauri, Michelangelo Pistoletto, Tommaso Trini48.
Il pubblico sedeva sul pavimento o su poltrone BBB di Meda e assisteva a Vobulazione e bieloquenza NEG di Colombo e Agnetti – elaborazione elettronica di un pattern geometrico realizzata nei laboratori della Philips – quanto alle azioni performative di Marotta (Dibattito), Mauri (Inviato speciale), Pistoletto (Circuito chiuso) e Trini (In diretta)49.
Inoltre, in merito al terzo programma, come si evince sempre dalla recensione di Comi, la sera dell’inaugurazione, al pubblico è stata fatta fare esperienza del circuito chiuso:
Prima è stato mandato in onda il programma realizzato dagli artisti e poi Trini (che ha dato delle spiegazioni tecniche circa la realizzazione delle stesso) coadiuvato da Fabio Mauri ha tentato di raccogliere le impressioni del pubblico.
Il tutto veniva registrato con due telecamere e trasmesso simultaneamente su schermo Eidophor di m. 3×3.
Mauri ha voluto fare dei test comportamentali facendo delle zoomate, dei primi piani di alcune persone. […]
Si è potuto assistere a tutta una gamma di reazioni diverse e in quello spazio – che sottolineava gli avvenimenti che si succedevano senza alcun programma, con casualità e precarietà, con una loro esteticità intrinseca – il pubblico costituiva spettacolo nello spettacolo e il tutto si avvertiva con percezioni simultanee multiple. Alle azioni degli artisti, registrate per offrire un certo tipo di informazione che diversamente rimarrebbe effimera e precaria, si è aggiunta quella della partecipazione del pubblico che per dieci giorni è stata veicolata, con lo stesso mezzo ad altro pubblico50.
L’estensione dello «spettacolo mostra» nella dimensione dell’architettura e del design, la sperimentazione delle tecniche di video-recording in circuito chiuso, la riflessione sulla creatività e sulla comunicazione televisiva, l’attenzione all’innovazione tecnologica rispetto al tema della diffusione delle videocassette sono gli aspetti in cui si declinava, in quel lasso cronologico, il rapporto tra arte e società.
Nel contesto della 35a Biennale Internazionale d’Arte – nell’ambito della sezione intitolata Proposte per una esposizione sperimentale – tra la sala VIII del Padiglione Centrale e gli spazi esterni adiacenti ai Giardini era stato allestito, in chiave ludica, «[…] un impianto TV multicanale a circuito chiuso» dedicato alle sperimentazioni del dispositivo televisivo da parte del pubblico51.
Nel novembre del 1970, a Roma, nel contesto dell’esposizione di Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-70 (a cura di Achille Bonito Oliva) vennero «[…] installate sulla facciata del Palazzo delle Esposizioni due file di monitor che mostravano ai passanti di via Nazionale quello che andava accadendo all’interno dell’esposizione»52. Il circuito chiuso esplicitava da un lato il processo comunicativo della diretta televisiva e dall’altro quello della videosorveglianza.
Nel marzo del 1971 a Roma prende a operare la VideObelisco Art Video Recording la cui attività Gaspero Del Corso e Irene Brin intendono distinguere da quella precedentemente svolta sin dal 1946 dalla galleria dell’Obelisco.Nell’introduzione a VideObelisco Art Video Recording Video Libro No. 1 Improvvisazioni su videonastro VPL 6 IC, Videoregistratore LDL 1000, telecamera mini compatc53, Francesco Carlo Crispolti ha esposto i tratti distintivi del VTR in quella fase tecnologica – «[…] telecamera [e] videotape [intesi] come memoria, presa diretta, provocazione, dissenso dai canali ufficiali, happening, gesto, presenza, casualità, spontaneità […]» – evidenziandone la dimensione culturale in rapporto alle «dimensioni comportamentistiche» delle arti visive.
In quelle che venivano definite «videoserate», anche alla VideObelisco la sperimentazione del VTR avveniva senza montaggio e si procedeva con la modalità di ripresa multicanale in diretta includendo l’uso della registrazione e del circuito chiuso:
[…] videorecorder, monitor e minitelecamere adeguatamente potenziate per l’occasione, tre canali (chiamiamo così i collegamenti) trasmettevano in diretta, da diverse angolazioni, quanto avveniva dentro e fuori la galleria; un canale ripeteva quanto era appena accaduto, due riproducevano i lavori preregistrati; più tardi, uno dei canali ritrasmetteva il tutto, come somma e verifica dei vari momenti precedenti. La firma rituale dei visitatori non veniva apposta sul solito guest book, ma, con una torcia elettrica, direttamente sul video, sfruttando la persistenza della fonte luminosa sul vidicon della telecamera54.
In galleria, Gerald Minkoff sperimenta Possibilità e impossibilità dell’autorappresentazione utilizzando «[…] la sollecitazione reciproca del tubo catodico e del vidicon opposti specularmente»; l’azione performativa registrata in circuito chiuso da Minkoff compone (senza editing) il programma presentato nel 1972 ad Acireale nell’ambito di Circuito —–> Chiuso – Aperto, rassegna sull’arte contemporanea dedicata al «video tape recording» curata da Crispolti e coordinata da Mussa55.
Dal 7 al 16 aprile del 1972, nel contesto operativo del Centro di Attività Visive-Palazzo dei Diamanti a Ferrara) – che precede l’avvio delle attività del Centro Video Arte56 – si tiene la «manifestazione» Schifanoia-tv: “mezzo” aperto/opera chiusa realizzata dal Gruppo OB di Milano. È qui posta a tema la questione della ripresa/trasmissione “in diretta” in ordine allo scarto differenziale tra il tempo dell’accadimento, il tempo della sua individuazione e quello della sua ripresa; vengono indagati cioè i tempi della captazione dell’evento e, insieme, quelli sua restituzione. Del mezzo video si esplora, inoltre, la capacità di presa sul reale e di manipolazione (nell’accezione semiotica). Questi aspetti vengono analizzati nel progetto dal Gruppo OB57 in una modalità definita «diretta-happening» che si snoda in quattro programmi (della durata complessiva di 40’), il cui oggetto è il sistema comunicativo mediale specifico del dispositivo “video” in un contesto museale peculiare quale Palazzo Schifanoia: viene dunque investigata, attraverso il circuito chiuso, la funzione del mezzo in situ e ci si interroga sulla dimensione percettiva e sulle sue implicazioni culturali o, più precisamente, sulla capacità critica messa in atto dal pubblico nel processo fruitivo.
VT, TV
Con la 36a Biennale Internazionale d’arte di Venezia e Documenta 5 in corso, in continuità con l’attività della VideOblesico, nel 1972 Crispolti cura, come si è più sopra anticipato, la rassegna Circuito –-> Chiuso – Aperto dedicata al «video tape recording». Il dispositivo videografico viene utilizzato in modalità live per sperimentare, mediante feedback, il processo di captazione elettronica nel flusso delle azioni/interazioni e delle improvvisazioni degli artisti e del pubblico. Nondimeno, la sezione arte contemporanea prevede anche la presentazione di video preregistrati, ma a loro volta realizzati in modalità live, diffusi in circuito chiuso e ri-trasmessi.
In questo contesto, la riflessione teorica di Crispolti sul mezzo videografico e sulle declinazioni pragmatiche del suo “utilizzo” da un lato, come si è detto, connette il programma di Acireale alle sperimentazioni della galleria VideObelisco, ma anche, più in generale, alle attività di documentazione e informazione58; dall’altro lato essa contribuisce al progressivo rafforzamento (che percorrerà tutti gli anni Settanta) di un’attenzione didattica che attiene alla conoscenza distintiva degli apparati tecnologici di TV e VT in relazione alle tecniche, ai formati, agli standard, alla descrizione dei modi di impiego, alle definizioni lessicografiche, alle bibliografie, alle cronologie di esposizioni, rassegne e opere. Nel testo VideObelisco Art Video Recording Video Libro No. 1,sul piano delle cronologie e dei primi tentavi di storicizzazione della dimensione transnazionale delle pratiche videografiche – che impegnano artisti, critici, curatori e archivisti – prendono progressivamente forma le narrazioni che mettono al centro della “storia del video” e della sua trasmissione culturale le mostre di Wolf Vostell e Nam June Paik, il ruolo di Howard Wise, l’edizione di Radical Software, la presenza di Guerrilla Television ecc. In relazione a quest’ultimo indirizzo, ossia quello della controinformazione, vengono citati i casi del Community Center di Washington e della April Video Cooperativa, consorzio di gruppi attivi in USA e in Canada.
Nel processo di istituzionalizzazione del VTR messo in campo da Crispolti nel contesto delle arti visive in Italia, si connette l’emergere del nuovo mezzo alla prefigurazione mediale della tele-visione contenuta nel tardo manifesto futurista LA RADIA59(1933) con l’intento, per così dire, di legittimare l’uso della tecnologia nella ricerca estetica e nella pratica artistica (questione non affrontabile qui). Gli assunti della RADIA, anticipatori dei caratteri estetici della tele-visione, sembrano definire un punto di raccordo della ricerca estetica contemporanea con l’avanguardia d’inizio secolo in funzione della costruzione di un canone genealogico della video arte in Italia, la cui trasmissione culturale procede da Crispolti a Celant60, Fagone61 e ad altri/e. A tali assunti si aggiungono quelli del Manifesto del movimento spaziale della televisione in relazione al lavoro di Lucio Fontana e alla sua sperimentazione del mezzo televisivo, nel 1952 in RAI62.
Allo stato della ricerca, non vi sono aggiornamenti in merito all’emersione dagli archivi RAI- Radiotelevisione italiana di nuovi materiali fondamentali oltre a quelli già conosciuti e che concernono principalmente gli interventi diretti degli artisti (come del caso di Fabio Mauri, ad esempio, con Il televisore che piange 2’ 40’, b/n sonoro RAI realizzato nel 1972 nell’ambito della trasmissione Happening, curata da Enrico Rossetti); neppure sono stati ritrovati nuovi materiali di documentazione indiretta.
In Italia, a questa altezza cronologica, la riflessione teorica non si concentra sulla “specificità” del nuovo mezzo – che pure viene repertoriata – ma si esprime su termini morfologici e, più precisamente, si sofferma sulle metodologie d’uso, sugli stili ecc. La riflessione sull’ontologia del video si farà largo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta in relazione al processo di innovazione tecnologica e di diffusione del mezzo. Ciò che la critica rimarcherà a posteriori è che l’interesse degli artisti italiani per l’uso del video, se comparato a quello degli artisti nordamericani, si profila come raro ed episodico. Fagone, ad esempio, considera le esperienze degli artisti con il videotape quali «[…] escursioni, più o meno felici, che raramente compongono un profilo costante e riconoscibile di ricerca»63. Per ragioni diverse, secondo Fagone (e non solo), gli artisti non sembrano cogliere fino in fondo la logica di funzionamento del dispositivo video che implica la contemporaneità di azione/ ripresa/ trasmissione/ ricezione; non vi è stata cioè la possibilità né di pensare né di dar pienamente corso all’utilizzazione della tecnologia video in relazione alla sua immediata capacità di riprendere/restituire i processi performativi e di rivedere/documentare il registrato. Questo, tuttavia, era già avvenuto – con Gennaio 70, con Telemuseo, con Video Libro N° 1 della VideoObelisco, con Circuito —> chiuso – aperto, con Schifanoia-tv: “mezzo” aperto/opera chiusa del gruppo OB – nei primissimi anni Settanta e avverrà a metà anni Settanta attraverso s-confinamenti (inter)disciplinari tra video, cinema, musica e performance diversamente istradati da Giuseppe Chiari, Federica Maragoni, Fabrizio Plessi e Chrisitina Kubisch, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Michele Sambin, Claudio Ambrosini.
In Italia, come nel Nord America, ciò dipende, con esiti diversi, dall’effettivo accesso degli artisti alle nuove tecnologie e alle nuove tecniche d’uso. Da qui discende l’importanza dei centri di produzione/distribuzione.
Rispetto a questi ultimi, tuttavia, in termini di riflessione critico-teorica, per molte vie, “il video” si attesta sintomaticamente come “pittura” (si legga “arte”) realizzata con altri mezzi,come una tecnica esecutiva e uno strumento espressivo compresi tra tutti gli altri (Giaccari, Studio 970/2)64, come unostrumento senza un linguaggio proprio (Maria Gloria Bicocchi, art/tapes/22)65, ma anche, in direzione contraria, come mezzo espressivo dalle qualità estetiche e dalle potenzialità linguistiche inedite (Lola Bonora, Centro Video Arte – Palazzo dei Diamanti Ferrara966.
Nell’arco temporale che va dagli anni Sessanta ai primi anni Settanta il cinema e, soprattutto, il video entrano in intersezione con la performance. L’uso del video, in modo pressoché sistematico, si attiva nell’ambito artistico in relazione alle azioni performative e implica un gesto performativo che restituisce video opere (videoperformance) o video documentazioni.
A queste date, l’uso del video non diviene tuttavia mezzo espressivo, tecnica esecutiva, linguaggio, estetica, cultura visiva connotante in modo specifico una pratica artistica.
Allo stesso modo, sul versante della pratica performativa stricto sensu, Francesca Gallo67 sottolinea come, in quest’arco temporale, dal punto estensivo si registri una fitta attività e come dal punto di vista intensivo, per converso, seppur con qualche eccezione, non siano evidenziabili pratiche di performer «a tutto tondo». Vi è nel complesso, va detto, una scarsa sensibilità e una scarsa urgenza biopolitica che, con l’avanzare degli anni Sessanta, va tuttavia progressivamente emergendo, in ambiti diversi e minoritari, sul piano dell’azione performativa: si pensi al lavoro coevo di Jannis Kounellis, Pino Pascali, Carmelo Bene, Giuseppe Desiato, Alberto Grifi, Anna Lajolo, Guido Lombardi. Che cosa, a livello sistemico, sia intervenuto in Italia68 a disperdere e a far deviare le sensibilità biopolitiche – che a livello transnazionale si attestano pienamente, invece, sul piano della corporeità/corporalità e della performance – resta ancora da indagare.
Quel che si intende qui rilevare è, invece, il nesso operativo tra “video” e “performatività” che sembra interessare le riflessioni e le argomentazioni di critici, curatori e artisti accomunate, come già accennato, dalla negazione del “montaggio”.Del videotape stesso è la specificità mediale a definirsi in modo affatto paradossale. Tale specificità da un lato è attestata in termini tecnici (la maggior durata dei nastri in fase di ripresa rispetto alle pellicole substandard, il poter vedere e rivedere, la possibilità di cancellare e ri-registrare ecc.) e nelle sue rifrazioni linguistiche e comunicative (liveness, circuito chiuso, feedback ecc.), ma simultaneamente, dall’altro lato, è resa inessenziale sul piano teorico. L’uso espressivo del mezzo tecnico è tendenzialmente ridotto al grado zero, ossia alla presa diretta e alla registrazione impersonale e neutra delle azioni performative.
Questa ambivalenza si rifrange nella lessicografica e nelle riflessioni teoriche ed è tracciabile nelle pratiche artistiche, nei discorsi curatoriali, nei contesti espositivi, nella ricezione della critica.
Le definizioni lessicografiche (“repertori di termini”, “videoterminologie” ecc.) si affiancano a descrizioni funzionali del dispositivo “video” (caratteristiche tecniche delle attrezzature su cui si basano le potenzialità mediali), a bibliografie, a cronologie di eventi, di esposizioni, di opere. Si tratta, nel complesso, di un lavorio ininterrotto che scandisce i processi d’innovazione e di obsolescenza delle tecnologie. Nel corso degli anni Settanta questo tipo di articolazione tematica, finalizzata alla condivisione dei dati, non muta: le informazioni confluiscono – così aggiornate e ampliate e vieppiù approfondite – nei cataloghi delle esposizioni e delle rassegne, nei dossier monografici di riviste, negli interventi dedicati al tema della video arte in vari ambiti.
Per quel che attiene al tema della negazione del “montaggio” è importante, per molte ragioni, il punto di vista di Gerry Schum e in primis perché il suo lavoro non solo interessa il contesto culturale e artistico italiano (come attestano sia la presenza di Land Art a Gennaio 7069sia i programmi di proiezioni alla galleria L’Attico), ma interagisce con questo. È soprattutto Identifications a tracciare un preciso e significativo momento di intersezione con il progetto di video-recording messo in atto da Barilli, Calvesi, Emiliani e Trini nell’ambito di Gennaio 7070. Dal contatto con Barilli sembra discendere la partecipazione di Schum nel 1972 alla 36a Biennale Internazionale d’arte di Venezia71. Ai Giardini, nel padiglione centrale, egli cura la sezione Video-Nastri nella quale, insieme a Eurasienstab di Joseph Beuys, ripresenta Land Art72 e Identifications73. In tale contesto, inoltre, egli ha reso possibile agli artisti l’utilizzo di un laboratorio mobile in cui i videotape realizzati, nell’intenzione, miravano «[…] ad evidenziare il contrasto, ossia il dualismo, fra le tradizionali opere d’arte risultanti da attività tecniche “artistiche” da una parte e l’arte intesa come processo o performance dall’altra» creando, «in accordo con l’idea di comportamento74 – attraverso un processo di permanente modificazione e correzione reso possibile dal mezzo televisivo – una sorta di sistema reversibile all’infinito tra la mostra nella sua totalità e le singole opere d’arte che la potranno riflettere e modificare»75.
Il punto di vista di Schum, come si evince anche dall’utilizzo dello spazio video-laboratorio mobile, concerne il dispositivo di produzione e di esposizione, vale a dire la mostra come medium. Nel complesso, il progetto di “mostra televisiva” di Schum mirava a mettere in discussione in modo radicale il sistema istituzionale dell’arte che si articolava in museo, galleria, atelier. Come è noto, i film Land Art e Identifications, riversati in video, vennero trasmessi rispettivamente come “mostre TV” dalla Sender Freies Berlin il 15 aprile 1969 e dalla SüdWestfunk Baden-Baden il 30 novembre 1970.
A Documenta 5, presso il Fridericianum Museum di Kassel, sempre nel 197276, Schum presentava Videotapes, un programma della sua “VideoGalerie” o, più precisamente, presentava la “VideoGalerie” stessa come programma e, insieme, come veicolo: l’unico monitor 77 fungeva da postazione transitoria attraverso la quale mostrare opere “de-materializzate”78 a carattere multiplo.
Vi è tuttavia sia una spinta a confrontarsi/scontrarsi con le istituzioni che gestiscono e controllano la comunicazione televisiva di massa e che motiva il programma di “mostra televisiva” sia, contemporaneamente, una controspinta che definisce lo spazio operativo della “videogalleria” come luogo in cui esporre i videotape e attraverso cui gestire la vendita dei “video-oggetti”, ancorché mediante un processo di fondamentale democratizzazione economica tanto dei mezzi di produzione quanto dei “video oggetti” prodotti.Da tale prospettiva, i video-oggetti sono oggetti artistici multipli che recuperano non tanto un’“aura”, quanto una consistenza materiale e una referenza al diritto d’autore (ogni video-oggetto è corredato da una fotocertificazione firmata dall’artista).Il “videotape” è, dunque, investito sia da un processo di de-materializzazione sia di ri-materializzazione.
Oltre all’operatività di Schum in Italia e agli effetti culturali della sua presenza, resta da indagare approfonditamente la metodologia della sua attività: film-maker di formazione, è interessato a documentare l’arte contemporanea ed è anche un gallerista con un’idea potente quanto non compiutamente realizzata di “videogalleria” che, tuttavia, sperimenta rendendo possibile il concetto di “mostra televisiva”.
Modi, usi
Schum evidenzia come la serie di azioni Land Art – di Marinus Boezem, Walter De Maria, Jean Dibbets, Barry Flanagan, Mike Heizer, Richard Long, Dennis Oppenheim, Robert Smithson – anche se «specificatamente concepite per una trasmissione televisiva», registrate su pellicola in16mm e poi riversate in video, nondimeno presentino una “riduzione al minimo” del “linguaggio” e della “forma filmica”. Il film (o il video) è pensato da Schum come un mezzo tra gli altri mezzi possibili per la realizzazione concettuale delle azioni79. Nondimeno, si pone il tema dell’autorialità (emblematico, in tal senso, il caso di Land Art in relazione al dissidio intercorso tra Gerry Schum, Richard Long e Michael Heizer)80.
Questo attiene ad aspetti concettuali che concernono le azioni degli artisti e che dunque ineriscono all’uso del mezzo video in relazione alle azioni e agli accadimenti performativi.
L’argomento dell’autorialità è fortemente implicato nella definizione dei modi d’uso immediato (diretto) o mediato del video che Luciano Giaccari elabora (nel 1972/1973) rispetto al tipo di rapporto che si configura tra l’artista e il mezzo. Su questa base Giaccari procede alla classificazione dei metodi d’impiego del video in arte, osservando le pratiche artistiche coeve e tracciando una tassonomia i cui criteri, le cui categorie e classi derivano per interdefinizione da aspetti sia teorici sia tecnico-espressivi che attengono alla produzione/comunicazione dell’opera video. La Classificazione ripartisce in due insiemi le modalità d’uso che nelle situazioni empiriche sono potenzialmente o variamente intersecanti81: il primo insieme concerne le situazioni in cui si dà il «rapporto diretto artista-mezzo televisivo» e comprende quali sottoinsiemi il «videotape», la «videoperformance», il «video-environment»; il secondo riguarda le situazioni in cui si dà il «rapporto mediato artista-mezzo televisivo» e ricomprende, quali sottoinsiemi, la «videodocumentazione», la «videoinformazione», la «videodidattica» e la «videocritica».
Dopo la fase “prevideo”, a scorrere l’inventario dei nastri magnetici dell’archivio, la produzione dello Studio 970/2 – che prende avvio in modo sistematico con l’opera video Suspence-TEMPO (1970) di Luciano Giaccari e con la video documentazione di Print Out happening (o “azione”) di Allan Kaprow (1971) – dal 1972 si concentra sull’ attività documentativa (in particolare in collaborazione con Fabio Sargentini)82. Questo tipo di attività metterà sempre più in luce pragmaticamente il confine incerto tra opera e documento sul quale Giaccari rifletterà sino a portare a elaborazione la Classificazione degli usi del videotape.
Significativamente, l’interesse e l’attenzione di Giaccari si polarizzano sul processo di documentazione dopo averlo assimilato al processo critico o, più precisamente, alla funzione della critica intesa come mediazione (questione non affrontabile qui). Ciò implica la presenza di chi documenta, vale a dire il filtro interpretativo di chi utilizza il dispositivo tecnologico mediando l’opera dell’artista (azione performativa) attraverso la sua captazione e registrazione. Vittorio Fagone rileva che per Giaccari:
Il video non è solo una nuova area linguistica che allarga lo spazio il complesso spazio delle arti visuali alla fine degli anni sessanta, ma è più sottilmente un luogo riflessivo di tutta l’esperienza artistica contemporanea. Non solo quindi un momento di diffusione, come la TV avrebbe potuto fare (e non ha mai fatto), ma un’attiva possibilità di trasferimenti in un medium linguistico non inerte, anzi riflessivo. Il video offre anche la possibilità, […], di indagare sulle ragioni, oltre che sulle espressioni, della poetica degli artisti.83
Il sottotesto delle argomentazioni concerne la questione dell’autorialità e discende dalla scarsa competenza d’uso della tecnologia video da parte degli artisti. Il tema dell’autorialità si pone in vari modi, ma per gli artisti la posta in gioco è il controllo discorsivo sul proprio operato e sulla dimensione estetica della propria opera che ha rifrazione tanto sul piano della produzione di una video-opera quanto sul piano della video documentazione (questione, lo si evidenzia per inciso, ancora attiva nell’ambito dell’arte contemporanea a carattere performativo e che si pone diversamente, ma paradigmaticamente, nel lavoro di Marina Abramović e di Tino Sehgal).
Concludendo, quindi, è possibile affermare l’esistenza di un nesso tra il dispositivo “video” nella modalità circuito chiuso e la performatività. Tra il finire degli anni Sessanta e i primissimi anni Settanta è, infatti, documentabile la consapevolezza della co-implicazione dell’azione performativa e della sua captazione attraverso il mezzo videografico che, nel dominio tecnologico analogico, s’introduce in e si sostituisce a quello cinematografico (divenendo peraltro, durante la seconda metà degli anni Ottanta, il passeur del “cinema” in ambito artistico-museale)84. La capacità di captazione del mezzo cinematografico di un gesto, di un atto, di un evento si trasforma nella capacità d’interazione con il mezzo tecnico che il dispositivo videografico rende possibile; interazione rispetto alla quale un gesto, un atto, un evento divengono parte del processo generativo in chiave operale o documentale. In questi anni emerge, in molti modi, come progettualmente il tempo, l’azione, il processo muovano, transitino attraverso materie, corpi e oggetti senza coincidervi, così che la produzione delle condizioni di possibilità degli eventi scaturente dall’azione performativa, anche se basata su materiali esistenti, restituisce esperienze di cui il videotape è istanza generatrice, memoria e archivio.
- C. Saba, In luogo di un’introduzione. Coesistenze, intersezioni, interferenze tra forme mediali e forme artistiche, in Ead., (a cura di), Cinema Video Internet. Tecnologie e avanguardia in Italia dal Futurismo alla Net.art, Clueb, Bologna 2006. ↩
- Allo stato attuale della ricerca restano da indagare le modalità di circolazione e di diffusione delle informazioni sulla cultura artistica nordamericana coeva: è dunque necessario studiare tanto le mostre quanto i discorsi curatoriali e analizzare, mediante i resoconti critici degli artisti e dei galleristi, il confronto culturale Italia-USA che necessariamente si è attivato in seguito ai viaggi degli artisti e film-maker italiani in Nord America (Francesco Giraldi, Mario Schifano, Alfredo Leonardi ed altri). ↩
- Cfr. G. Dorfles, L. Marucci, F. Menna, (a cura di), Catalogo della mostra Al di là della pittura. Esperienze al di là della pittura. Cinema indipendente. Internazionale del multiplo. Nuove esperienze sonore. San Benedetto del Tronto, Palazzo Scolastico Gabrielli 5 luglio / 28 agosto 1969. ↩
- Cfr. G. Celant, Precronistoria 1966-69, Quodlibet, Macerata 2017, p. 47. Il testo è stato scritto nel 1972 e pubblicato nel 1976 dal Centro Di, Firenze. ↩
- In A. Boatto, Lo spazio dello spettacolo, 1967, in L’Attico di Fabio Sargentini 1966-1978, a cura di Massimo Barbero e Francesca Pola, Electa, Milano 2010, p. 62. ↩
- In G. Celant, (a cura di), Identité italienne, L’art en Italie depuis 1959, Catalogo della mostra, Centre Georges Pompidou Paris, Centro Di, Firenze 1981, p. 216. Sul finire del 1967, a Roma, al Teatro di via Belsiana, Mario Schifano organizzò Esperienza e Ambiente proiettivo animato un ciclo di proiezioni filmiche (includendo nel programma anche i propri film) e presentò azioni performative che comprendevano proiezioni di oggetti e di diapositive (vi prendono parte Tano Festa, Luca Patella, Franco Angeli). ↩
- La proiezione dei film Motion/Vision avveniva sul “rotor”, una “macchina inventata” da Bignardi, ossia un cilindro rotante composto da specchi, schermi plastica e legno. ↩
- In A. Boatto, Lo spazio dello spettacolo, in M. Barbero, F. Pola, (a cura di), Catalogo della mostra L’Attico di Fabio Sargentini 1966-1978, p. 67. ↩
- In V. Fagone (a cura di), Arte e cinema. Per un catalogo di cinema d’artista in Italia 1965/1977, Centro Internazionale di Brera, Marsilio, Venezia 1977, p. 51. Cfr. A. Farassino, A proposito di “artisti di cinema”, in Arte e cinema. Per un catalogo di cinema d’artista in Italia 1965 / 1977, cit., p. 3. ↩
- Vi parteciparono Giovanni Anselmo, Getulio Alviani, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Aldo Mondino, Ugo Nespolo Gianni Piacentino, Michelangelo Pistoletto, Paolo Scheggi, Gianni Emilio Simonetti, Gilberto Zorio. ↩
- Cfr. M. Bacigalupo, (a cura di), Il film sperimentale, in «Bianco e Nero», fascicolo, 5/8, maggio/agosto, 1974, p. 71, p. 84, p. 159. ↩
- In A. Troncone, La smaterializzazione dell’arte in Italia 1967-1973, Postmedia, Milano 2014, pp. 68-71. ↩
- Cfr. G. Celant, M. Rumma, (a cura di), Catalogo della mostra Arte povera più azioni povere, Antichi Arsenali della Repubblica, Amalfi, 4 – 6 ottobre 1968. Nel contesto di Arte povera più azioni povere Pistoletto presentò ad Amalfi l’happening L’uomo ammaestrato con il gruppo de Lo Zoo; alcuni passaggi sono stati documentati in un reportage della RAI intitolato Amalfi 1968 sull’arte povera realizzato da Achille Bonito Oliva ed Ermidio Greco, «Zoom», produzione RAI Radiotelevisione Italiana. ↩
- Cfr. R. Barilli, M. Calvesi, T. Trini, A. Emiliani (a cura di), Catalogo della mostra della 3a Biennale internazionale della giovane pittura, gennaio 70: comportamenti, progetti, mediazioni, Ente Bolognese Manifestazioni Artistiche (EBMA), Alfa stampa, Bologna 1970. ↩
- SKMP2 venne proiettato nel dicembre del 1968 alla galleria L’Attico insieme al film di Alfredo Leonardi Libro di Santi di Roma Eterna (16mm, col., 15’) al quale presero parte, tra gli altri, Sylvano Bussotti, Jannis ed Efi Kounellis, Eliseo Mattiacci, Mario Schifano e Pino Pascali. Cfr. M. Barbero, F. Pola, (a cura di), L’Attico di Fabio Sargentini 1966-1978, cit. p. 241; cfr. B. Di Marino, Sguardo inconscio azione. Cinema sperimentale e underground a Roma (1965-1975), Lithos, Roma 1999, p. 63. ↩
- L. Giaccari, M. Meneguzzo, (a cura di), La distanza della storia. Vent’anni di eventi video in Italia raccolti da Luciano Giaccari, Prearo, Milano 1987, p. 48. ↩
- Cfr. Saggi di Lisa Parolo infra. ↩
- G. Celant, (a cura di), Identité italienne, L’art en Italie depuis 1959, cit., p. 263. ↩
- Informazioni tratte da documenti (in fase di inventariazione) della Videoteca Luciano Giaccari. Desidero ringraziare Maud Giaccari, Gloria Marchini e la dott.ssa Irene Boyer per aver condiviso parte della documentazione relativa alla fase “prevideo” dello Studio 970/2. ↩
- Informazioni tratte da documenti (in fase di inventariazione) dell’archivio Luciano Giaccari. ↩
- Documenti (in fase di inventariazione) dell’archivio Luciano Giaccari. ↩
- Intervista inedita. Documenti (in fase di inventariazione) dell’archivio Luciano Giaccari. ↩
- Nel 1967 a Milano prende a operare il Club Nuovo Teatro, che vede Franco Quadri impegnato (più tardi anche insieme ad Alberto Farassino) nel processo di diffusione delle culture del cinema underground. ↩
- In tal senso, secondo Giaccari, certi film Fluxus prefigurano il video, egli pensa a Smoking di Joan Jonas, a Music for Face di Mieko Shiomi, a Film Fluxus n. 16 di Yōko Ono. Intervista inedita. Documenti (in fase di inventariazione) dell’archivio Luciano Giaccari. ↩
- Il Festival ha avuto corso dal 12 al 23 giugno con la partecipazione di Terry Riley, La Mont Young e Marian Zazeela, Trisha Brown, Steve Paxton, Deborah Hay, Yvonne Rainer, Simone Forti e David Bradshaw. Si tratta della seconda edizione del Festival internazionale Danza Volo Musica Dinamite che si è svolto – all’Attico (via Beccaria) nel 1969 dal 9 al 23 giugno. Gli interventi degli artisti furono filmati da Degli Espinosa. Il film prodotto da Port Royal e L’Attico fu proiettato l’1 e il 2 aprile 1970 alla galleria de L’Attico e nel corso di Gennaio 70. ↩
- La Classificazione è pubblicata nel catalogo Impact Art Vidéo Art 74, Galerie Impact Lausanne nel 1974, in seguito venne presentata nel 1975 da Gillo Dorfles all’Espace Cardin di Parigi nel quadro Incontri Internazionali del Video e, sempre nel 1975, fu pubblicata nell’ inserto L. Giaccari, (a cura di), È nata l’arte dell’era televisiva. Veni, Video. Vici?, «Bolaffi Arte», n. 49 anno VI, aprile/maggio 1975, sp. Fu ripresa inoltre in S. Luginbühl, P. Cardazzo, Videotapes. Arte Tecnica Storia, Mastrogiacomo Editore Images70, Padova 1980, pp. 37-39. ↩
- In L. Giaccari, M. Meneguzzo, (a cura di), Memoria del video 1. La distanza della storia. Vent’anni di eventi video in Italia raccolti da Luciano Giaccari, cit. p. 54. ↩
- In T. Trini, Di videotape in videotappa. Note sui primi esperimenti da parte degli artisti, «Domus», n. 495, febbraio 1971, p. 51. ↩
- In G. Schum, Videotappa Gerry Schum, Intervista, «DATA» # 4, 1972 pp. 71-73. ↩
- In G. Schum, Video-nastri, 36° Esposizione Internazionale d’Arte, 11 giugno – 1 ottobre 1972, Venezia, Ente Autonomo “La Biennale di Venezia”, Venezia 1972, p. 32. ↩
- Il progetto ha avuto una lunga gestazione ed è stato avviato nel 1968. ↩
- Cfr. T. Trini, Il Telemuseo, «Domus» 488, luglio 1970. ↩
- In G. Schum, Videotappa Gerry Schum, Intervista, cit., p. 71. ↩
- In G. Schum, Introduzione alla mostra televisiva Land Art, in V. Valentini, (a cura di), Cominciamenti, Postmedia, Milano 2019, p. 57; Ead., Cominciamenti, Catalogo Taormina Arte, III Rassegna internazionale del Video d’Autore, 30 agosto – 1 settembre 1998, De Luca Editore, Roma 1988. ↩
- In R. Barilli, M. Calvesi, T. Trini, A. Emiliani, (a cura di), Catalogo della mostra della 3a Biennale internazionale della giovane pittura, gennaio 70: comportamenti, progetti, mediazioni, cit., sp. ↩
- In R. Barilli, Video-recording a Bologna, in «Marcatrè» (nn. 58/59/60 e 4, 5, 6, maggio 1970) ora in R. Barilli, Informale Oggetto Comportamento, Volume secondo. La ricerca artistica negli anni ’70, Milano, Feltrinelli, 1988, pp. 85-95. ↩
- In R. Barilli, La coincidenza di opposti in R. Barilli, M. Calvesi, T. Trini, A. Emiliani, (a cura di), Catalogo della mostra della 3a Biennale internazionale della giovane pittura, gennaio 70: comportamenti, progetti, mediazioni, cit., pp. 136-143. ↩
- In R. Barilli, Video-recording a Bologna, cit., pp. 137-138. ↩
- In R. Barilli, Video-recording a Bologna, cit., p. 87. ↩
- In R. Barilli, Video-recording a Bologna, cit., p. 86. ↩
- In M. Calvesi, Schermi T.V. al posto dei quadri in «L’Espresso» del 15 marzo 1970 pubblicato con il titolo Azioni al video in Avanguardia di massa, Feltrinelli, Milano 1979, p. 227. ↩
- In R. Barilli, Video-recording a Bologna, cit., pp. 138-139. ↩
- Scrive Calvesi: «[…] la trasmissione su più canali avrebbe dovuto, nel progetto iniziale, far sì che girando l’occhio da un televisore all’altro il visitatore potesse soffermarsi su azioni diverse, come ci si sofferma sui quadri […] Ragioni economiche hanno reso più statico il programma». In M. Calvesi, Azioni al video in Avanguardia di massa, cit., p. 227. ↩
- In S. Bordini, Memoria del video: Italia anni Settanta, in Videoarte in Italia, «Ricerche di Storia dell’arte», n. 88, 2006, p. 9. ↩
- Nel 1972, con la collaborazione della galleria Naviglio 2 (diretta da Renato Cardazzo), Giaccari mostra in circuito chiuso per strada, a Venezia (in Calle delle Frezzerie), la serie di videotape TV OUT 1. Cfr. Saggio di Lisa Parolo, infra. Cfr. L. Parolo, Video arte in Italia anni Settanta. La produzione della galleria del Cavallino di Venezia, Bulzoni, Roma 2019. ↩
- La consulenza tecnica e artistica è di Gianfranco Bettetini, il coordinamento di Tommaso Trini. ↩
- Cfr. T. Trini, Il Telemuseo, cit., sp. ↩
- R. Comi, Letture/ Mostre / Costume. 1. L’Eurodomus 3: Il Telemuseo di Trini, in «METRO», n. 15, p. 295. ↩
- T. Trini, Il Telemuseo, cit., sp. ↩
- R. Comi, Letture/ Mostre / Costume. 1. L’Eurodomus 3: Il Telemuseo di Trini, cit. ↩
- In U. Apollonio, L. Caramel, D. Mahlow, (a cura di), Ricerca e progettazione. Proposte per una esposizione sperimentale, 35a Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, 24 giugno-25 ottobre 1970, Venezia, La Biennale di Venezia e Alfieri Editore, Venezia 1970, p. XXXIII. ↩
- In G. Sergio, Informazione, documentazione, opera: le funzioni dei media nelle pratiche delle neoavanguardie tra il 1968 ed il 1970, in Videoarte in «Italia Ricerche di storia dell’arte» n. 88, 2006, p. 77. ↩
- Il catalogo presenta Vobulazione e bieloquenza NEG di Vincenzo Agnetti e Gianni Colombo (1970); Balla/Strawinski/Diaghilev Feu d’artifice 1915-1917 una ricostruzione elettronica del balletto di sole luci senza danzatori rappresentato a Teatro Costanzi a Roma nel 1917 (senza autore e senza data); Il mio occhio di Franco Bedini (sd), Caleidoscopio di Cristoforo (sd); Luce di Filippo Pansec (sd); Alberi parlanti di Luca Patella (sd); Sculture sonore di Attilio Pirelli (sd); Per gli studi su Cyborg e il mondo vegetale: la vita viene dalle acque (sd). ↩
- Circuito —–> Chiuso – Aperto. Catalogo della VI Rassegna d’Arte Contemporanea “Acireale Turistico-Termale”, Acireale, Palazzo Comunale, 24 settembre – 15 ottobre 1972, a cura di Francesco Carlo Crispolti e Italo Mussa, Edigraf, Centro stampa di Catania 1972 (sp). ↩
- Circuito —–> Chiuso – Aperto. Catalogo della VI Rassegna d’Arte Contemporanea, cit., sp. ↩
- Cfr. C. Saba, C. Vorrasi, L. Parolo, (a cura di), Videoarte a Palazzo dei Diamanti. 1973-1979. Reenactment. Catalogo della mostra, Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, 2015. ↩
- Ne fanno parte Giuseppe Becca, Gianantonio Graziani, Antonio Marangoni. ↩
- Crispolti, assieme a Guido Cosulich, assume nel 1973 di produrre i Videogiornali de La X Quadriennale di Roma. Cfr. F. Gallo, I Videogiornali della X Quadriennale, tra documentazione e autorialità, «L’uomo nero. Materiali per una storia delle arti della modernità», anno XV, n. 14-15, marzo 2018, pp. 289-302. ↩
- L’argomentazione è ripresa da Crispolti in Cronache VTR, in Circuito —–> Chiuso – Aperto. Catalogo della VI Rassegna d’Arte Contemporanea “Acireale Turistico-Termale”, cit. sp. ↩
- Cfr. G. Celant, Video come lavoro dell’arte, in Id., OffMedia: nuove tecniche artistiche: video, disco, libro, Dedalo Libri, Bari 1977, pp. 7-73 ripreso in Id. Artmix. Flussi tra arte, architettura, cinema, design, moda, musica e televisione, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 71-102 (si veda p. 72). ↩
- In V. Fagone, Un millennio e un minuto la video arte in Italia, in Id., L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Feltrinelli, Milano 1990, p. 164. ↩
- Cfr. S. Bordini, Videoarte & arte. Tracce per una storia, Lithos, Roma1995, pp. 20- 25. In merito al progetto e all’evento televisivo che ha impegnato Fontana negli studi Rai di Milano si rimanda ad A. Di Brino, Videoarte: dal segno all’opera finita. Percorsi di polisemia estetica dalla grafica alla videoinstallazione, Tesi Dottorato di ricerca in Storia delle arti visive e dello spettacolo, Ciclo XXV, 2010-2013, Università di Pisa, pp. 38-48. ↩
- In V. Fagone, Luciano Giaccari. L’attività e la videoteca a Varese, in Id. L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, cit., p. 168. ↩
- Si veda L. Giaccari, Una nota di Luciano Giaccari, in S. Luginbühl, P. Cardazzo, Videotapes. Arte Tecnica Storia, Mastrogiacomo Editore Images70, Padova 19, p. 54. ↩
- In C. Saba, M. Infanti, Art/tapes/22. Conversazione con Maria Gloria Bicocchi, in C. Saba (a cura di), Arte in videotape. Art/tapes/22, collezione ASAC – La Biennale di Venezia. Conservazione restauro valorizzazione, Milano 2007, pp. 180-193. ↩
- Questioni queste che a fine anni Settanta sono poste a tema da Lola Bonora, Carlo Ansaloni (Centro Video Arte Palazzo dei Diamanti di Ferrara) e da Maurizio Cosua nel corso di una conversazione video registrata – ABC-Video (1978) – presso la galleria del Cavallino a Venezia. Qui emerge ancora l’argomento dei metodi d’impiego del video nelle differenti declinazioni classificate da Giaccari, ma secondo una pertinenza tecnologica e, insieme, espressiva o, più precisamente, linguistica. Aspetto, quest’ultimo che Gillo Dorfles mette in rilievo nel suo intervento al convegno dedicato a “Le arti e il ruolo della televisione” tenutosi a Milano nel settembre del 1978. G. Dorfles, La Tv come canale di una nuova espressività visuale, in Le arti e il ruolo della televisione, ed. RAI (ERI), Torino 1979, pp. 120-126. ↩
- In F. Gallo, Informare, osservare, agire: riviste, performance e artisti, in La performance in Italia: temi, protagonisti e problemi, «Ricerche di Storia dell’arte», n. 114, 2014, p. 6. ↩
- In C. Tisdall, Performance art in Italy, in «Studio International», n. 976, 1976, pp. 42-45. ↩
- Dei nastri di Gennaio 70 non si ha più traccia fisica; i video-programmi includevano, tra le altre azioni di Alighiero Boetti, Mario e Marisa Merz, Pier Paolo Calzolari, Mario Ceroli, Gilberto Zorio, Michelangelo Pistoletto, Luca Patella, Luciano Fabro, Giovanni Anselmo, Gianni Colombo, Jannis Kounellis), Tentativo di volo azione già “performata” da Gino De Dominicis in Identifications. Di tali programmi non rimane che una descrizione letteraria di Barilli (Video-recording a Bologna, pp. 136-143) e di Achille Bonito Oliva (Lavoro estetico e comunità concentrata, pp. 70-78) pubblicato su nel già citato «Marcatrè» (nn 58/59/60 e 4, 5, 6, maggio 1970). ↩
- Cfr. L. Parolo, Le fonti, i metodi e le narrazioni della storia della videoarte in Italia negli anni Settanta. La Terza Biennale Internazionale della Giovane Pittura, Gennaio ’70, in «Sciami/Ricerche», n. 2 (www.sciami.com) 2017. Per la ricostruzione generale della mostra si rimanda ad A. Troncone, La smaterializzazione dell’arte in Italia 1967-1973, cit. ↩
- Archivio storico delle arti contemporanee Fondo storico La Biennale di Venezia. Arti visive. Segnature: b. 202. 7. “Videocasette-videotapes”. Carpetta Videoptapes Gerry Schum. ↩
- La serie di azioni Land Art di Marinus Boezem, Walter De Maria, Jean Dibbets, Barry Flanagan, Mike Heizer, Richard Long, Dennis Oppenheim, Robert Smithson anche se “specificatamente concepite per una trasmissione televisiva”, registrate su pellicola in 16mm e poi riversate in video, nondimeno presentavano una “riduzione al minimo” del “linguaggio” e della “forma filmica”. Infatti, il film o il video è pensato come un mezzo possibile, tra gli altri, per la realizzazione concettuale delle azioni. Cfr. G. Schum, Video-nastri, 36° Esposizione Internazionale d’Arte, cit., pp. 31-32. ↩
- Comprende le azioni di Giovanni Anselmo, Joseph Beuys, Alighiero Boetti, Stanley Brown, Daniel Buren, Piero Calzolari, Gino De Dominicis, Ger van Elk, Hamish Fulton, Gilbert & George, Gary Kühn, Mario Merz, Klaus Rinke, Ulrich Rückrien, Reiner Ruthenbeck, Franz Erhard Walter, Lawrence Weiner e Gilberto Zorio. Identifications fu presentato nel 1971 alla galleria L’Attico di Fabio Sargentini. ↩
- G. Schum, Video-nastri, cit. Nel 1972 nel contesto della 36a Biennale Internazionale d’arte di Venezia Reanto Barilli e Francesco Arcangeli curano la mostra Opera e comportamento. Nella seconda metà degli anni Settanta, Renato Barilli sosteneva: «[…] l’attività che approda alla performance non è molto diversa, nei suoi aspetti teorici, nella sua filosofia, da ciò che in Italia si è detto “comportamento”, anzi tra i due al limite non c’è alcuna differenza concettuale […]». R. Barilli, La performance oggi: tentativi di definizione e di classificazione, in R. Barilli e altri (a cura di), La performance, Catalogo della Settimana internazionale della performance, Galleria d’Arte Moderna di Bologna, 1-6 giugno 1977, La Nuova Foglio, Bologna 1977; cfr. V. Valentini, Mondi, corpi, materie. Teatri del secondo Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 83. ↩
- In G. Schum, Video-nastri, cit. ↩
- In Italia dove dal 1968 è attivo (a Varese) lo studio 970/2 di Luciano Giaccari, nel corso del 1972 in un contesto istituzionale pubblico a Lola Bonora e Carlo Ansaloni si accingono ad avviare il Centro Video Arte – Palazzo dei Diamanti di Ferrara che sarà operativo dal 1973 al 1994-96. ↩
- Si veda K. Ammann, Video ausstellen: Potenziale der Präsentation, Peter Lang, Bern and Berlin 2009, pp. 31-32. ↩
- Cfr. L. Lippard, Introduction, in Ead., (a cura di), 557,087. Catalogo della mostra, Seattle 1969, ora parzialmente riprodotto in Ead., Six Years: the Dematerialization of Art Object from 1966 to 1972, University of California, Berkley 1997. ↩
- In G. Schum, Video-nastri, cit., pp. 31-32. ↩
- Cfr. F. Stevanin, La fotografia, il film e il video nella Land Art tra documentazione e sperimentazione, Tesi di Dottorato di ricerca in Storia dell’arte, Ciclo XXV, 2010-2013, Alma Mater Studiorum Università di Bologna. ↩
- In S. Luginbühl, P. Cardazzo, Videotapes. Arte Tecnica Storia, cit., p. 56. ↩
- A quelle date, si precisa l’idea di restituzione-documentazione in video di eventi artistici performativi così come, prende evidenza l’intento museale e archivistico di Studio 970/2 che al termine degli anni Settanta assumerà la denominazione di Videoteca Giaccari. ↩
- In V. Fagone, Luciano Giaccari. L’attività e la videoteca a Varese, cit., p. 168. ↩
- Cfr. R. Bellour, La doppia elica, in V. Valentini (a cura di), Le storie del video, Bulzoni, Roma 2003. ↩