Giovanni Testori è stato uno degli intellettuali fondamentali del Novecento italiano, che ha inaugurato un nuovo modo di concepire e declinare i linguaggi dell’arte all’interno della società. Tra i tanti aspetti del suo carattere d’artista emerge quello di uomo di teatro, giacché lo spettacolo dal vivo fu la forma di ‘arte totale’ in cui raggiunse i vertici espressivi più elevati. Non è un caso, infatti, che la riscoperta postuma di Testori sia avvenuta principalmente entro il perimetro della scena, attraverso un’intensificazione eccezionale dei suoi spettacoli nel teatro italiano contemporaneo. Facendo leva su una precisa metodologia storico-critica e su un aggiornato approccio teatrologico, il saggio analizza l’attuale fortuna scenica dello ‘scrivano’ lombardo, attraverso l’esame di sei produzioni teatrali testoriane realizzate nel 2019. Lo studio condotto sulla grammatica delle scritture sceniche, sui procedimenti compositivi del lavoro registico, e sulle forme della recitazione di questi allestimenti ci ha portato ad elaborare un prospetto compiuto della nuova scena testoriana; una vivida ortografia teatrale della sua renaissance artistica, legata alla memoria pratica e intrinseca del suo corpus drammaturgico. I risultati dell’analisi illustrano le ragioni culturali e sociali della riscoperta di Testori, i modi concreti con cui oggi si compie la ‘riattivazione’ scenica delle sue opere, e i punti di forza, legati al ruolo dell’attore e alla dimensione rituale, di quest’intensa vague testoriana.
1. Stare nel presente
La restituzione della memoria, non come nostalgia, ma come coscienza dolorosa del presente è, secondo me, un’operazione attiva, forse l’operazione più rivoluzionaria che oggi possa compiersi in un meccanismo, come dire, produttivistico, demenziale, che tende a ridurre l’uomo a oggetto o, peggio ancora, a fabbricarselo da sé, l’uomo1.
Così Giovanni Testori spiegava la propria necessità di ‘riattivare’ la memoria del capolavoro manzoniano, I Promessi sposi, nel programma di sala della prima messa in scena della sua riscrittura del romanzo: quel celebre I Promessi sposi alla prova che debuttò al Salone Pier Lombardo di Milano il 26 gennaio 1984.
Trascorsi più di trent’anni da quella «rilettura manzoniana straripante di umori terrestri e di celesti illuminazioni»2, il concetto di memoria si può estendere oggi alla drammaturgia stessa dello ‘scrivano’ di Novate, che ha dimostrato di saper reggere la prova del tempo, non perdendo nulla della propria incisività ma anzi guadagnando aderenza alla realtà, carica provocatoria, dialogo con il presente.
Se già un anno fa l’attenzione di Luca Doninelli verso il côté testoriano contemporaneo aveva portato l’allievo del Novatese a parlare di un «Testori dopo il Dopotestori»3, è evidente che nel frattempo la spinta verso il futuro della parola testoriana ha intensificato il proprio slancio (o meglio la propria incarnazione), raggiungendo adesso un livello record del tutto senza precedenti. Stiamo parlando della straordinaria concentrazione di spettacoli teatrali di Giovanni Testori, che nel breve lasso di tempo tra febbraio e marzo 2019 si sono avvicendati nei teatri di Milano, allargando la mappa della sua fortuna scenica verso nuove aree di interesse.
Sei le produzioni teatrali – di cui quattro debutti e due riprese – artefici di questo exploit della drammaturgia di Testori: La Monaca di Monza con Federica Fracassi e la regia di Valter Malosti, Macbetto con Roberto Magnani, Cleopatràs con Marta Ossoli e Conversazione con la morte con Gaetano Callegaro, entrambi per la regia di Mino Manni, I Promessi sposi alla prova con regia di AndréeRuth Shammah, e infine Edipus con Roberto Trifirò.
Decisamente differenti tra loro – sul piano delle forme della drammaturgia, della scrittura scenica, delle specificità produttive dei teatri coinvolti –, questi spettacoli non solo dimostrano un interesse in ascesa per l’autore lombardo, ma soprattutto rappresentano le tessere di un mosaico aperto, gli steps di un tracciato non lineare che congiunge, tramite scarti, ricorrenze e sperimentazioni successive, il passato e il presente del teatro di Testori, per porli, come diceva Benjamin, in reciproca combustione.
Se è pur vero, infatti, che uno spettacolo teatrale possiede una materialità effimera, affidata all’evento artistico tanto visibile quanto sfuggente, la sua realizzazione e ricezione sono strettamente ‘compromesse’ con le istanze del tempo in cui si inseriscono; così i recenti lavori testoriani consentono di verificare oggi, di mettere alla prova, la tenuta della memoria culturale legata all’opera dell’autore, evidentemente ricavandone un bilancio in positivo. La grande reviviscenza della drammaturgia di Testori alla quale stiamo assistendo indica, pertanto, un’attuale esigenza di teatro segnatamente inteso in senso testoriano: vale a dire come spazio di autenticità, di interrogazione radicale e diretta, senza alibi e senza filtri, con i nodi cruciali dell’esistenza.
Testori sta nel presente, e riesce a starvi poiché continua a lanciare la sfida di un pensiero anarchico, fuori dagli schemi, dai ragionamenti comodi e speciosi dettati dal senso comune e dal potere. Con sensibilità e intelligenza, questa «chiamata a un’esperienza di libertà»4 che è la messa in scena (o la ri-messa in scena) del teatro di Testori, è stata raccolta negli ultimi mesi da artisti realmente in grado di incarnarla, restituendo la memoria dei testi nel segno concreto, e umanamente totale, dell’irriducibile attrazione tra il corpo e la parola.
2. La re-visione manzoniana
Esaminare gli spettacoli testoriani andati in scena nella prima parte del 2019 richiede uno sguardo panoramico sull’orizzonte drammatico dell’autore, costruito in oltre cinquant’anni di scrittura pressoché costante, ma sempre tesa alla virata, al ripensamento, al rilancio sperimentale e creativo. Il percorso che va dalla Monaca di Monza del 1967, opera-ponte verso un antirealismo tragico e monologante, al Macbetto e all’Edipus degli anni Settanta (rispettivamente ’74 e ’77), passando per Conversazione con la morte (ʼ78) e I Promessi sposi alla prova (ʼ84) fino a Tre lai del 1993, indica il passaggio da una drammaturgia dell’attore, fortemente votata all’incarnazione fisica del personaggio, ad una drammaturgia del verbo, capace di «indirizzare la forza profetica del corpo dal gesto alla parola, la sola che incarna, dentro di sé, le Verità fondamentali»5.
Esplorare la ‘mappa spettacolare’ tracciata da questi lavori consente quindi di attraversare i movimenti sismici della drammaturgia di Testori, che rischia di continuo la peripezia di forme diverse, ma nel contempo sa restare ben salda ai propri nuclei drammatici, ancorata a quelle radici lombarde sul cui terreno si svolge tutta la partita letteraria, culturale e morale dell’autore di Novate.
Cuore pulsante di questa nuova apertura all’opera testoriana è stato il Teatro Franco Parenti, cioè ‘il’ teatro di Testori, che egli aveva contribuito a fondare nel 1973 – allora col nome di Salone Pier Lombardo –, avviando una fervida collaborazione ‘triangolare’ con l’attore Franco Parenti e la giovane regista Andrée Ruth Shammah. Proprio quest’ultima, oggi anche direttrice artistica e inarrestabile animatrice del Franco Parenti, ha ideato per il suo teatro un vero e proprio Progetto Testori, che tra febbraio e aprile ha proposto spettacoli, incontri a tema, recital di poesie e laboratori drammaturgici, stimolando un rinnovato ascolto, e quindi una rinnovata appropriazione, delle parole dello scrivano.
Il progetto si è sviluppato sull’asse manzoniano della drammaturgia di Testori, con due spettacoli basati su due testi esemplari: La Monaca di Monza e I Promessi sposi alla prova, tanto distanti sul versante del linguaggio scenico, quanto uniti dalla medesima tensione a verificare, a interrogare visceralmente, il mistero dell’esistenza e con esso quello del teatro. Fil rouge tra i due drammi di matrice manzoniana è la figura storica di Marianna de Leyva, poi suor Virginia, che Manzoni nel suo romanzo cela sotto il nome di Gertrude, e che in Testori diventa personaggio-totem, dirompente detonatore di pulsioni tragiche.
Il primo assalto testoriano al sembiante della sventurata è il testo teatrale del ’67 La Monaca di Monza, scritto espressamente per l’attrice Lilla Brignone e da questa portato in scena con la regia di Luchino Visconti; da allora sarà ripreso solo due volte: nel 2004 da Elio De Capitani con interprete Lucilla Morlacchi, e nel 2016 dai giovani Yvonne Capece e Walter Cerrotta. Poco frequentato nel corpus di opere dell’autore, La Monaca di Monza è stato di recente rimesso in scena da Valter Malosti, già regista di quattro spettacoli testoriani, con protagonista Federica Fracassi, anche lei non nuova alla drammaturgia del Novatese e già interprete dei Tre lai e di Erodiàs. Lo spettacolo, che ha debuttato al Franco Parenti il 12 febbraio, ha rappresentato una dimostrazione piena di come si possa riattivare oggi il tragico testoriano. Se, infatti, le parole di Testori sanno stare nel presente, è importante che anche il presente sappia entrare in dialogo con l’opera di Testori; il che in ambito teatrale significa sperimentare nuove modalità espressive, intercettare gli impulsi e le trasmutazioni del teatro post-novecentesco. Possiede queste qualità il lavoro di Malosti, in cui la disperata invettiva di Marianna de Leyva – contro la natura, i genitori e soprattutto contro Dio – si svolge in un quadro scenico di grande potenza visuale e sonora, dove la concretezza materica della lingua testoriana è amplificata da bagliori pittorici e vibrazioni elettroniche.
Il regista torinese sceglie di asciugare il lungo testo dell’opera, circoscrivendo l’ampio sistema dei personaggi ai soli tre ruoli-chiave: la Monaca peccatrice e assassina (Federica Fracassi), il suo truce amante Gian Paolo Osio (Vincenzo Giordano), e la novizia Caterina (Giulia Mazzarino), la ‘medasca’ sedotta e poi uccisa per impedirle di svelare la loro tresca. La scrittura di Testori insistesui corpi dei personaggi, descritti in tono raccapricciante come spettri che tornano dalla morte, come «larve secche e intirizzite o vermi gonfi del più nauseante putridume»6; questa portata horror del dramma, che si prolunga nella violenta rammemorazione degli omicidi compiuti dagli amanti maledetti, è la traccia fosca e perturbante che lo spettacolo sceglie di seguire, attraverso un’immagine folgorante: quella di tre loculi di vetro che imprigionano i corpi dei protagonisti, inghiottiti da un abisso nero, da un buio della mente. L’intera scrittura scenica si nutre di precise matrici iconografiche e visuali: tagli di luce caravaggeschi, silhouettes schiacciate contro i vetri che ricordano le antropometrie di Yves Klein, gabbie visive che richiamano gli spazi video di Bill Viola, pose plastiche delle mani della Monaca, dotate di una forza iconica paragonabile a quella delle statue di Gaudenzio Ferrari al Sacro Monte di Varallo.
Se l’impianto scenico e il body-language rivelano una contaminazione intermediale con l’arte figurativa, il soundscape appare modulato secondo una drammaturgia sonora pianamente contemporanea, che si avvale di microfoni, di effetti di spazializzazione dei suoni, di mixage tra rumori diegetici e extra-diegetici (il gocciolare dell’acqua, il soffiare del vento), che creano un fuori campo acustico ad alta carica evocativa.
Allo spiccato ardore visivo e sonoro della regia di Malosti si unisce l’eccellente qualità interpretativa degli attori – su tutti la testoriana Fracassi –, ottenendo così uno degli esiti più fecondi della ricezione odierna del teatro di Testori: una ‘fantasmagoria performativa’ che (ri)accende il cortocircuito tra verbale e visuale proprio dell’officina testoriana, usando i codici del post-drammatico per rilanciare il pathos straziante di suor Virginia e dei suoi revenant.
Dopo la La Monaca di Monza la vena manzoniana di Testori («compagno di strada che [egli] considerò una bussola»)7 tornò a infiammarsi nel 1983, in occasione delle manifestazioni del Bicentenario Manzoniano; nello stesso frangente Testori voleva tornare a collaborare con Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah, con i quali i rapporti lavorativi si erano interrotti dopo la messa in scena della ‘Trilogia degli Scarrozzanti’. Da questo doppio ritorno nacque I Promessi sposi alla prova, una riscrittura integrale dell’opera di Manzoni in chiave contemporanea e metateatrale. La prova inventata dallo scrivano è quella di una moderna compagnia di attori che, dopo anni di teatro «off», «controff» e «transoff»8, si cimentano nel portare in scena il monumento manzoniano, guidati da un Maestro che «cerca di recuperarli al senso del loro mestiere, cioè, trattandosi di attori, alla loro umanità»9.
Effervescente tourbillon di ‘teatral-parola’, che scava dentro i temi del romanzo per liberarlo da interpretazioni bigotte e falsificanti, I Promessi sposi alla prova andò in scena al Pier Lombardo nell’84 con protagonista Parenti – nel ruolo del Maestro – e la regia di Shammah. Trentacinque anni dopo la regista milanese ha scelto di tornare a quel testo, realizzando una nuova versione dello spettacolo che, dopo un rodaggio al Teatro della Pergola di Firenze, ha debuttato il 20 marzo al Franco Parenti. L’operazione di Shammah ha una forza rivoluzionaria: pur conservando indispensabili agganci alla prima messa in scena del testo, la regista è riuscita a ri-appropriarsene in modo nuovo e contemporaneo, costruendo con passione, mestiere e grande sensibilità di sguardo uno spettacolo esemplare.
Abbiamo avuto il privilegio di partecipare alle prove dell’allestimento, e così entrare nella dimensione, affascinante e segreta, in cui lo spettacolo esiste nel suo farsi. Da questa esperienza, prima, e dalla visione in teatro, poi, abbiamo ricavato suggestioni ampie e non esauribili in questa sede, che pertanto ci riserviamo di affrontare in altri studi.
Intanto, occorre già sottolineare la dote maieutica dell’approccio registico di Shammah, che ha guidato il cast di attori con competenza ermeneutica e intuizione critica dentro i labirintici percorsi della reinterpretazione testoriana. Il congegno drammatico, infatti, è densissimo di riflessioni efficacemente teatralizzate (anche attraverso ‘guittate’ e spassosi accenti comici), che possono coagularsi in un duplice assetto metaforico: la metafora prima è quella del Maestro, figura che esprime la necessità, tutta contemporanea, di tornare all’insegnamento rivolto ai giovani, a un magistero che sia introduzione alla vita, alla sua incancellabile sfumatura di bene e di male10. Su questa si sviluppa una metafora seconda, che è quella del teatro inteso come banco di prova dell’esistenza, dove il mestiere-«ministerium»11 dell’attore sta nello sforzo di incarnare la parola, e così renderla realtà, segno concreto del mistero e del senso del teatro, e quindi della vita.
La lezione del Maestro, che è l’idea testoriana della vita nel teatro in cui le situazioni dell’esistenza diventano metafora dell’esistenza stessa, è limpidamente esplicitata dalla regia di Shammah, che ha lavorato nuovamente sul lungo testo tagliandone i riferimenti più manzoniani per fare emergere con maggior forza il succo del ragionamento di Testori, filtrato e chiarito dal suo sguardo sul presente.
Così la regista ci ha spiegato le intenzioni della sua re-mise en scène:
È passata molta acqua sotto i ponti. Testori oggi condividerebbe quello che sto facendo. Tanta gente non ha visto lo spettacolo trent’anni fa, e – al di là del fatto che lo sto cambiando – è anche un po’ ingiusto non dargli la possibilità di vedere in scena una cosa che tanto importante è stata allora, e vedere se può diventare ancora importante oggi. È alla prova due volte: alla prova alla seconda, al quadrato. Se allora i Promessi sposi era stato messo alla prova, adesso metto alla prova quei Promessi sposi alla prova, questo è quello che mi stimola; perché allora era alla prova del tempo, di Manzoni, adesso è alla prova di oggi. E, infatti, lo sto umanizzando molto di più. […] Nel testo c’è un punto che non è cattolico, non è ebraico, non è laico, e questo punto è l’uomo, l’insegnamento, i giovani. Con questo spettacolo vorrei andare dentro l’umanità12.
Il desiderio di andare dentro l’umanità, al di là di letture religiosamente orientate dell’opera13, si riverbera nella totale assenza di retorica dello spettacolo; il suo messaggio è antropologico e universale: diventare attori significa prima di tutto diventare uomini, ripetere nell’eterno presente del teatro la stessa parabola di luci e tenebre, di gioie, disperazioni e bruciori carnali che pertiene a tutta l’umanità, per mettere alla prova se stessi e quindi la vita. «Una lezione e un monito»14 – come lo stesso Testori definì la sua ‘verifica’ manzoniana – che, attraverso la rinnovata mediazione di Shammah, arrivano al pubblico semplici, immediati, spontanei, contestualizzati nella scena ariosa e luminosa di un’essenziale sala prove, ma soprattutto espressi con intelligente consapevolezza dal gruppo di interpreti.
Shammah crede in un teatro degli attori, e qui lo abbiamo visto chiaramente nel minuzioso lavoro di comprensione del testo e delle intenzioni dei personaggi che ha svolto con il cast. Le parti principali sono state affidate a interpreti di vaglia della scena nazionale: un poliedrico e intenso Luca Lazzareschi nei panni del Maestro (ma anche di Don Abbondio, di Fra Cristoforo, dell’Innominato, di ‘Giampegidio’), e una palpitante Laura Marinoni in quelli della Monaca Gertrude; che nell’epifania di un perfetto coup de théâtre emerge da una tomba-‘poléra’ celata sotto le assi del palco, di nero vestita e ricoperta di piume, anchilosata per la lunga immobilità della segregazione. Nelle sue posture scomposte e frementi, e nella straziante sfumatura della sua voce, Marinoni ha dato prova di una potente incarnazione scenica, capace di raggiungere la profondità chiaroscurale degli abissi interiori della Monaca. E se Laura Pasetti e Carlina Torta, rispettivamente Perpetua e Agnese, (ri)animano i loro personaggi con brillante espressività, aggiungendo la dolce malinconia di canzoni popolari o la genuina concretezza del focolare domestico, la scommessa vinta sono i giovanissimi Filippo Lai (Renzo), Nina Pons (Lucia) e Sebastiano Spada (Don Rodrigo), fertili di accenti e di inventiva attoriale, hanno contribuito in modo decisivo a dare nuova linfa allo spettacolo.
Da un incontro così felice tra talento registico e interpretativo, la pièce di Testori è stata restituita agli spettatori di oggi ricaricata di valore paideutico, di gioco e ironia (meta)teatrali, di forza cognitiva della parola scenica testoriana; da qui l’esito trionfale di pubblico, soprattutto giovane, che ha affollato la sala del Franco Parenti durante le repliche dello spettacolo, confermando l’acutezza dell’intuizione di Shammah: rimettersi ‘alla prova’ per «esortare a camminare con una nuova consapevolezza nel nostro tempo»15, per estendere più in là il percorso di interrogazione e conoscenza dell’uomo e della sua storia. Senza la nostalgia delle impronte tracciate, ma accogliendo dentro le assi del teatro il respiro vivo del presente, che è già il fiato del futuro.
3. Immagini dal buio alla luce
Se Manzoni è stato un persistente compagno di viaggio per Testori – il quale anche topograficamente si inscrive nell’aura di Don Lisander –, il suo pedinamento creativo dei classici letterari si è spinto altresì verso latitudini geografiche e temporali diverse, fino a precipitare nel «grembo barocco e putrido del Seicento, straordinaria stagione di splendori e miserie»16. La ‘fuga nel Seicento’17 è vissuta specialmente all’insegna del teatro di Shakespeare, il cui modello rimarrà fonte d’ispirazione fino al termine ultimo della vita, quando l’autore lombardo, con un tour de force di invenzioni linguistiche e di contenuto, in sole due settimane scrive i Tre lai (pubblicato postumo nel 1994). L’estremo slancio compositivo di Testori ha la capienza di un nostalgico riepilogo, dove in tre monologhi tragici – Cleopatràs, Erodiàs e Mater strangosciàs – si distillano e condensano le ossessioni e predilezioni di un’intera esistenza18, e torna la sperimentazione (pluri)linguistica degli Scarrozzanti degli anni Settanta.
Il primo testo della trilogia rimette in scena la «gran reina»19 dell’Antonio e Cleopatra shakesperiano, trapiantata però in una Valassina contemporanea e trasformata in una soubrette tragicomica e dall’erotismo basso e viscerale, che si strugge per la morte dell’adorato «Tugnàs»20, secondo la tecnica testoriana in cui «l’assunzione della classicità coincide […] con il suo rovesciamento parodistico»21.
Proprio la sensualitàcarnale e la coloritura melodrammatica sono i punti di forza della Cleopatràs interpretata da Marta Ossoli per la regia di Mino Manni; spettacolo che a quattro anni dal debutto, e dopo esser valso a Ossoli il Premio Nazionale Franco Enriquez 2017 come migliore attrice, è stato riproposto questo marzo al Teatro Litta di Milano. La seconda occasione scenica del lavoro di Manni/Ossoli ne ha confermato il meritato successo di critica e di pubblico, giacché si tratta di un’ottima lettura, sia registica che interpretativa, della seducente Cleopatrassa.
All’interno di una scena nuda, dove il solo elemento d’arredo è una scala-trono di legno, Ossoli dà vita al personaggio testoriano attraverso una recitazione marcatamente fisica e sensoriale, segnata da un’adesione fisiologica al senso di solitudine e d’angoscia che lo pervadono. Forzando un po’ la tassonomia delle tecniche di recitazione, potremmo dire che l’approccio dell’attrice appare scaturito dal metodo delle azioni fisiche di Stanislavskij, in cui ogni azione fisica è di natura psicofisica, vale a dire che «le emozioni interiori e l’identificazione con il personaggio possono essere indotte dal movimento, dall’azione e dal ritmo»22. La profonda tensione immedesimativa della performance di Ossoli ha come punti d’aggancio il corpo, i gesti, il volto e la voce, veri e propri trigger espressivi di una palpitante carica empatica. La complessa miscela di registri emotivi di Cleopatràs, che transita da toni cupamente tragici e nichilistici ad accenti farseschi e quasi deliranti (Testori attinge dal melodramma, dal varietà, dalla lauda drammatica, dalla Sacra Rappresentazione), è restituita con un’espressività fisica duttile e cangiante, una recitazione ‘a tutto corpo’, sempre lucida e tesa nella sua immedesimazione. Il magnetismo generato da questo tipo d’interpretazione è accentuato da efficaci invenzioni registiche: una partitura sonora extradigetica altamente atmosferica, che scuote il «laiar»23 della regina d’Egitto con sciabordio d’acqua e raffiche di vento; un disegno luci mobilissimo, che ben sostiene il climax drammatico; l’inserto pop di Abbronzatissima cantata da Edoardo Vianello: colonna sonora di una Cleopatràs in costume da bagno e occhiali da sole, che sgambettando mima le nuotate disinibite, «senza più slip / né più toplès»24, fatte con Antonio tra le onde del lago di Lasnigo.
Forse l’intuizione scenica che più conquista lo sguardo, sintetizzando il trascinamento psicofisico del lavoro di Ossoli e il furore erotico della «reina»25 testoriana, è la danza dionisiaca, scandita dal ritmo di percussioni africane, a cui Cleopatràs si abbandona selvaggiamente prima di lasciarsi mordere dall’aspide. La girandola impazzita del suo corpo seminudo, investito da luci rosso-sangue, è un’immagine di un’incandescenza assoluta, che rimanda a una condizione primitiva, animale, dove corporeità e desiderio diventano sfrenati e estremi, per riscattare il vuoto «nigottàs»26 a cui è destinata l’umana esistenza.
Il cupio dissolvi di Cleopatràs sarà riassorbito dall’attesa di salvezza di Erodiàs, e infine pacificato dalla fiducia e dalla speranza della Mater strangosciàs, secondo un progressivo percorso di illuminazione che ricalca l’evoluzione spirituale di Testori. Ma il primo segno drammaturgico della sua svolta religiosa fu la cosiddetta ‘Trilogia per la parola’, che si apre con il monologo Conversazione con la morte con cui lo scrittore annunciava il proprio ritorno alla fede innescato dalla perdita della madre. Sarà forse per tale ‘parallelo’ tra l’approdo dei lai e questo testo che Manni e Ossoli (quest’ultima in qualità di assistente alla regia) dopo la parabola tragica di Cleopatràs hanno scelto di portare in scena Conversazione con la morte, affidando lo spettacolo all’attore Gaetano Callegaro, che ha debuttato il 19 marzo al Teatro Litta.
Conversazione non è un testo semplice, nonostante la linearità della sua scrittura: il tono stilistico è sobrio e misurato, il linguaggio ha una chiarezza comunicativa che riduce i dati drammatici esterni per arrivare a «una drammatizzazione che rifaccia dell’evento teatrale un rito»27. Proprio all’interno di questo rito l’autore, che qui si presenta come un anziano attore alla fine della propria carriera, nel dialogo con la morte riesce a esorcizzarla: giunge all’accettazione del senso della nascita e quindi di quello della vita, con la sua sofferenza e la sua finitudine.
Il denso apparato di riflessioni umane e artistiche dell’opera, nella riduzione scenica di Manni è circoscritto ai passaggi di maggiore intensità memoriale: i ricordi del lavoro nel teatro, del primo amore e della morte della madre. La scelta di sfrangiare la complessità semantica del testo si salda con l’essenzialità degli elementi scenici, ovvero solo una sedia e un lungo tavolo al centro della platea, e soprattutto con l’asciuttezza intima e lirica dell’interpretazione di Callegaro. La pacatezza con cui l’attore attraversa, quasi in slow motion, l’itinerario dolce e straziante dei ricordi, fa da pendant con la cadenza melodica delle frasi, producendo l’effetto di una sorta di preghiera, di una confessione spirituale28. E se la trama sinestetica del dettato drammaturgico è resa con un vibrante design delle luci e dei suoni (su tutti l’ipnotico «gocciolare d’acqua dentro le tubature»)29, è evidente che nell’afflato immedesimativo di Callegaro è riposto il senso stesso dello spettacolo.
Anche in questo allestimento colpisce un’immagine in particolare, una scena di dirompenza fisica che brucia la poetica solennità della recita: durante la vertiginosa rievocazione della morte della madre, l’attore si issa sul tavolo-letto su cui è disteso un drappo bianco, e strisciandovi sopra con esasperata lentezza mima l’ultimo abbraccio al suo corpo morente. La riconciliazione tra il personaggio e la morte passa proprio dal corpo della madre, e l’ardore con cui egli cerca le sue labbra per «l’ultimo bacio – caro addio»30 esprime una necessità fisica, quasi carnale. Il «grembo, caldo e segreto»31, da cui tutto ha origine si fa pertanto medium verso il corpo di Cristo, verso l’accettazione della nascita/incarnazione e quindi della fine stessa dell’esistenza.
L’autentico spasimo fisico con cui Callegaro, a pochi centimetri dagli spettatori, si abbarbica al corpo-lenzuolo, eleva a rito il dolore della perdita, e insieme la speranza per un nuovo tempo condiviso, «oltre ogni giorno, per il sempre dei sempre»32.
4. Nuovo scacco alla tragedia
Lo slancio vitale e attualizzante della recentissima renaissance testoriana si è spinto anche nel mondo anarchico e degradato, in contrapposizione netta con la forma-dramma canonica e tradizionale, della ‘Trilogia degli Scarrozzanti’ – Ambleto, Macbetto, Edipus –.
La scalcagnata ‘ditta de teatranti’ che, senza mezzi né fortune, gira per le valli della Brianza provando a far rivivere, nella forma popolare che gli è propria, i miti della tragedia classica e gli eroi del teatro shakesperiano, è forse l’esito più originale del teatro di Testori. Legata alla creazione di un idioletto violentemente deformato (quell’«italiacano»33 di cui parla Giorgio Taffon che mescola brianzolo, italiano, latino, neologismi e termini stranieri), la prima trilogia dello scrittore nasce dal sodalizio con Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah34, e dall’urgenza di una doppia reinvenzione, drammatica e linguistica: la prima per ridare linfa al genere tragico tramite la storpiatura dei suoi testi modello, la seconda per reagire all’omologazione e all’impoverimento del linguaggio della cultura di massa, e insieme all’inespressività del parlato teatrale tradizionale.
Raccolgono questa sfida di ristrutturazione tematica e stilistica degli archetipi tragici gli spettacoli Macbetto o la chimica della materia di Roberto Magnani, e Edipus di Roberto Trifirò.
Il primo lavoro è frutto dell’inedita collaborazione tra tre compagnie ai vertici della scena emiliano-romagnola: Teatro delle Albe, Menoventi e Masque Teatro; e, dopo il debutto a settembre 2018 al festival Crisalide di Forlì, è stato portato in scena a marzo all’Olinda di Milano. Lo spettacolo di Magnani, che qui interpreta il protagonista Macbet e firma anche la regia, ha un primato importante, poiché si tratta della prima ri-messinscena di Macbetto da quando fu rappresentato nel ‘74 con l’interpretazione, «combinata di implacabilità drammatica e di risvolti grotteschi»35, di Franco Parenti.
La scrittura scenica di Magnani riattiva l’opera di Testori nel segno di una proceduralità teatrale post-novecentesca, orientata al performativo e al visuale. La sua interpretazione del testo ci sembra corrispondere a quella che Lorenzo Mango ha definito drammaturgia del visibile: «frutto di corpi, materie, segni iconici e simbolici, dinamismo fisico e di parola»36.
La grammatica visuale, infatti, è al centro della focalizzazione drammaturgica: fiotti di sangue sporcano il palco e i corpi dei personaggi, della pasta argillosa deforma il volto di Macbet, la strega è rappresentata come un blob di carne ad alta espressività performativa, luci livide e sanguinanti saturano lo sguardo, e determinati segni – il fez e il fiocco nero del protagonista – acquistano marcate valenze simboliche. La concretezza materica e fisiologica del linguaggio di Testori passa quindi da un tramite nettamente visuale e performativo.
Sul fronte della recitazione Magnani si è affidato alla musicalità interna al dramma che, interamente scritto in versi, Testori dichiarò di avere elaborato secondo i ritmi del libretto che Francesco Maria Piave scrisse per la musica di Verdi37. L’andamento metrico-ritmico del ‘recital cantando’ si estende qui alla dizione tout court dei personaggi, diventano una vera e propria cadenza musicale, aperta persino a sonorità emiliano-romagnole. La suggestione della «lingua poetica che si fa canto»38, tuttavia, non serve a raffreddare la temperatura oscena e violenta del dramma, che ha nell’escalation di crimini e pulsioni erotiche la sua rovente articolazione.
La reinvenzione testoriana di Macbetto, come suggerisce il titolo dell’opera, si concentra sulla diminuzione patetica del personaggio shakesperiano: egli non è più complice della moglie nella sua rapace conquista del potere, ma al contrario ne è totalmente succube. Questa reductio dello «sposo tramanto e indubbiato»39 è resa con plastica matericità da Magnani: impiastricciato di fango, con la voce alterata in striduli isterici e il corpo contratto in pose pavide e femminee, estingue del tutto l’aura mitica del re shakesperiano. Al rovesciamento parodistico e demitizzante di Macbet corrisponde l’inversione dei ruoli principali, giacché la vera protagonista qui è la Ledi, interpretata da Consuelo Battiston, che ieratica e imperiosa, con movenze affilate e costumi da dark queen, assume l’esercizio mascolino e fallocentrico del «poteràz»40. La fisicità ossuta e spigolosa di Battiston ben si adatta alla ferocia della Ledi, alla sua libidine senza passione amorosa, eccitata soltanto dal sangue, dalla violenza, dal desiderio di comando e di sottomissione.
Così, lo scambio transgender tra Macbet e la Ledi esprime un «Eros rovesciato nella sua parte oscura, malata, ossessiva»41, dove l’ingordigia erotica della regina è il correlativo oggettivo di un’insaziabile brama di dominio, una fame che divora tutto e tutti con una sorta di cannibalismo viscerale. Spetta a lei incarnare il nucleo tematico del dramma: la connessione tra potere e morte, della quale sarà vittima anche Macbet.
Altra trovata distintiva della riscrittura testoriana è la strega partorita dalle viscere dello stesso protagonista (sua proiezione o «psichega realtà»)42, qui resa in scena dal ‘corpo senza organi’, aggrovigliato in micro-posture scomposte, della performer Eleonora Sedioli. La partitura contorsionistica di Sedioli deriva dalla cronofotografia di Étienne-Jules Marey e dà l’impressione di un corpo fatto a pezzi, destrutturato in frammenti anatomici, «senza l’ossa più e senza più la spina»43.
Forse proprio in questa trasmutazione della strega vaticinante, vera e propria alterazione rabelaisiana rispetto al modello, si può leggere una metafora della deformazione testoriana della tragedia: destrutturata e contraffatta nella forma e nel contenuto, per darle una rinnovata energia drammaturgica che ne allontani il rischio di estinzione.
La sfida seguente che Testori rivolge al mito e ai suoi linguaggi, concludendo così la grande ‘Trilogia degli Scarrozzanti’, è il dramma Edipus. Pubblicato nel ’77 dopo una travagliata gestazione, il testo teatrale viene messo in scena lo stesso anno al Salone Pier Lombardo, anche in questo caso con l’interpretazione di Parenti e la regia di Shammah. Da allora è tornato sul palco solo una volta, nel 1994, interpretato da Sandro Lombardi e diretto da Federico Tiezzi. Inspiegabilmente dimenticato, Edipus è stato adesso ‘riportato in vita’ da Roberto Trifirò, interprete e regista dello spettacolo che ha debuttato il 26 marzo al Teatro Out Off.
L’ultimo scarrozzante creato da Testori porta all’estremo la sua denuncia della crisi del teatro e della cultura contemporanea; qui l’attore-guitto è rimasto solo a coltivare la sua passione per il palcoscenico: abbandonato dai compagni e dalla moglie, tenta di rappresentare la tragedia di Sofocle sotto forma di un disperato one man show, entrando e uscendo di continuo dai ruoli reinventati di Laio, Iocasta e Edipus. Al grido di «Sdervisciate il siparium!»44 il povero guitto si lancia nella recita che «tutti i compagni de scarrozzamento han voruto tradire»45, intrecciando le sue disastrate vicende personali con quelle ‘alte’ del mito, nel segno di una classicità degradata.
Trifirò, con un affondo altamente empatico nella tecnica immedesimativa, riempie di passione e malinconico dolore la ‘macchina (meta)teatrale’ dello scarrozzante. All’interno di una scena larga e spoglia, punteggiata da micro-sculture alla Calder e da grucce da cui pendono abiti-fantocci, l’attore dà corpo alla triade dei personaggi protagonisti con una sorprendente autenticità interpretativa. Il racconto duro e violento della testoriana vendetta di Edipus, che uccide il padre e stupra la madre poiché colpevoli di averlo abbandonato, è distillato in movimenti secchi, a strappi, in espressioni facciali mobilissime, sempre in bilico tra inquietudine e amara ironia. Trifirò sa bene che «lo Scarrozzante è la metafora di un certo tipo di teatro che volge al termine, un teatro popolare e povero. […] Finisce qualcosa di genuino con questo teatro, che può essere portato anche ai giorni nostri»46, e lo si vede chiaramente nella sua commossa adesione al personaggio, nel suo mettere in gioco anzitutto se stesso, incarnando l’ultima ribellione dello scarrozzante con nuda sincerità.
L’intensa personificazione di Trifirò, così dentro al suo Edipus da non creare alcuno scarto fra l’interprete e il personaggio, fa vibrare di autentico coinvolgimento anche il pubblico, ed è forse la sintesi che riassume meglio le ragioni della riscoperta testoriana.
Non solo nella spinta provocatoria, nella dissacrazione delle forme, nella condanna di una situazione di crisi – teatrale e sociale – sta il presente del teatro di Testori, ma soprattutto nella possibilità, in fondo senza tempo, di rintracciarvi qualcosa che parla di ciascuno di noi, «qualcosa como un senso / o forse, ‘na sensada»47, che ci avvicini di più alla nostra interiorità.
5. Il terzo tempo del teatro testoriano: riflessioni a margine
Alla luce di quanto detto sulle opere e sui protagonisti della nuova scena testoriana, riprendendo l’espressione di Doninelli citata all’inizio del contributo, possiamo confermare di trovarci oggi in una fase di ‘Testori dopo il Dopotestori’, un terzo tempo della ricezione scenica dello scrivano che riattiva nel presente, sotto mutate insegne, la memoria pratica e intrinseca del suo teatro. Se, com’è noto, gli ascendenti storici del post-Testori sono Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, che già negli anni Novanta avevano ripreso il suo repertorio in chiave figurativa e poetica48, da allora il raggio d’azione di questa riscoperta si è esteso e diversificato cospicuamente, in cerca non tanto di un ‘nuovo teatro testoriano’, quanto di nuove forme di vita nel teatro di Testori.
È opportuno, infatti, collocare il fenomeno di cui si tratta nell’ottica di una persistente adesione da parte degli artisti contemporanei ai temi peculiari e profondi dello scrittore, vale a dire a quelle cifre, ossessioni e matrici del suo orizzonte drammatico che si pongono in forte risonanza con le nostre urgenze storico-sociali. Detto in altri termini, non si deve confondere il ‘dopo’ con l’‘oltre’: l’attuale appropriazione dell’opera di Testori non si manifesta sotto forma di rielaborazioni o disambientazioni49 dei suoi archetipi drammatici, ma al contrario di un’innovazione che poggia con fermezza sul recupero della memoria, votata a processi di meditazione, ri-teatralizzazione e infine rilascio dell’eredità artistica dello scrivano.
Gli artefici di questa nuova stagione testoriana, pur nell’eterogeneità delle visioni, delle pratiche, delle scelte estetiche e di linguaggio, convergono sull’asse della restituzione filologica del suo pensiero drammaturgico, della continuità semantica con il suo discorso teatrale.
Lungi dal produrre forme di restaurazione – o peggio di copiatura – degli spettacoli originali, questa disposizione mnestica degli artisti testoriani si presenta piuttosto come un’innovazione senza perdita del ricordo, una trasmutazione degli assetti drammatici, che mantengono il proprium dell’autore ma appunto assumono altre forme, incluse quelle dell’espressione scenica post-novecentesca, visuale, performativa e tecnologicamente multimediale.
In tal senso, sono due i punti di forza distintivi di quest’ultima vague testoriana: la dimensione della parola, connessa all’attore, e quella del rito.
Come ha opportunamente rilevato Giorgio Taffon: «i testi dello scrittore lombardo si presentano come vere e proprie partiture per attori; la loro trama linguistica, la loro retorica, sono già di per sé una guida necessaria all’attore per lavorare sulla parola, sulla phoné, in certi casi quasi sul puro suono […]»50. È evidente che il ritorno a Testori coincide con un ritorno a un teatro di parola, energica, carnale, motoria. Parola che in questi spettacoli spazia dall’espressivismo plurilinguistico degli Scarrozzanti di Magnani e Trifirò e della Cleopatràs di Ossoli, al linguaggio piano e essenziale della Conversazione di Callegaro; dal lessico «ruspante, terragno»51, ma con interpolazioni colte, dei Promessi sposi alla prova di Shammah, fino a quello sensoriale e poetico, teso ad amplificare il registro melodrammatico della passione e della violenza, della Monaca di Monza di Malosti e Fracassi.
È importante evidenziare che l’incremento di valore drammaturgico della verbalizzazione testoriana, ciò che rende il suo un teatro di parola, sta producendo un forte rilancio del ruolo dell’attore nella scena contemporanea.
A partire dal nuovo teatro italiano degli anni Sessanta, e continuando poi sulla linea ‘teatro immagine – postavanguardia – nuova spettacolarità – teatro multimediale’, si è registrata una progressiva riduzione della centralità dell’attore, una crisi del suo ruolo causata dall’affermazione della pratica registica e della scrittura scenica. Al di là di posture troppo nette, che paventano l’annullamento dell’attore-personaggio nell’attore ‘immagine’ o attore ‘figura’ di un certo teatro performativo, non si può non constatare che nei settori di punta dell’odierna sperimentazione teatrale è venuta meno la tradizione novecentesca centrata sull’attore, sulla sua soggettività espressiva, sulla sua presenza scenica significante. Procedimenti post-drammatici volti al depotenziamento della parola in favore dei codici visivi della scena hanno minato la funzione dell’attore; il quale, tuttavia, oggi si rifunzionalizza in quei versanti del teatro d’arte che ha le sue fondamenta nel testo drammatico, inteso come momento aurorale di un processo creativo al cui centro sono posti il carisma e la persuasività dell’attore. Così, in linea con la lezione di Testori che deplorava lo strapotere dei registi e rivendicava la «vera necessità creativa»52 degli interpreti, l’attuale scena testoriana rappresenta una risposta concreta al fenomeno della crisi di centralità dell’attore post-novecentesco.
Il valore primario che la drammaturgia del Novatese assegna al personaggio (monologante e non) dimostra la sua indubitabile consapevolezza dell’importanza dell’attore53, di colui che non solo con la voce ma con tutto il suo corpo teatralizza la parola, operando una «vera e propria ‘consustanziazione’»54 tra il proprio bìos e quello del suo oggetto espressivo (cioè il personaggio).
Nella mappa spettacolare delineata in queste pagine non a caso abbiamo insistito sulla pregnanza delle partiture attoriali, su quelli che possiamo chiamare i «segni di performance»55 dei neo-interpreti del tragico testoriano. Usiamo qui la denominazione ‘neo-interprete’ secondo l’accezione data da Gerardo Guccini, da sempre attento alle modulazioni dell’attorialità contemporanea. Scrive Guccini che oggi
Invece di dare per archiviato il personaggio, gli attori ne rinnovano il senso […]. Nell’organismo del personaggio realizzato, la persona è, comunque, quella dell’attore, che gli presta sentimenti, ricordi, sensazioni, dettagli osservati, il proprio corpo e il proprio vissuto, esistendo in un darsi che è l’esatto contrario del principio di finzione56.
La lacerazione del diaframma mimetico-illusivo propria dell’opera di Testori, ovvero l’eliminazione della quarta parete in funzione di un teatro inteso come l’analogon della vita, porta sul piano dell’effettuazione scenica dei personaggi a modalità di interpretazione sciolte dal principio di finzione, e legate per contro alla realtà scenica degli interpreti o, ancora con Guccini, alla loro «“entelechia” che, aristotelicamente, è forma e anima della persona»57.
Inoltre, il fatto che la parola teatrale di Testori sia dotata di un forte tropismo nei confronti degli attori58, e che i suoi testi già contengano le indicazioni gestuali e locutorie a loro necessarie (le partiture di cui parla Taffon), determina la spiccata marca immedesimativa di cui si è detto per gli interpreti di questi ultimi spettacoli; vale a dire una pulsione ermeneutico-creativa che va ad irrorare di autenticità espressiva le loro parti, di verità extra-mimetica i loro personaggi.
La nuova scena testoriana, dunque, ripristina il primato dell’attore: facendo leva sulle spinte espressionistiche della parola drammatica dello scrivano, sul suo spessore semantico ed emotivo, rimette al centro la soggettività dell’interprete, stimolando in lui una sorta di reenactment di memorie private, riferimenti personali o sentimenti intimi che lo riporta ad essere, per dirla con Claudio Meldolesi, «uomo simile all’uomo»59.
Votato a elidere la finzione mimetica ed esprimere una passione senza artificio, l’attore testoriano si fa quindi protagonista di un rito, ponendosi come correlato scenico della comunità degli spettatori, stretta nel grembo di un teatro che ha una forza centripeta antropologica ed esistenziale. Tutta la drammaturgia di Testori poggia sul paradigma giovanneo del Verbo che si fa carne per ridare alla carne la parola; pertanto, la parola ‘re-incarnata’ nel corpo dell’attore viene celebrata per mezzo di un rito, purificatorio piuttosto che catartico, «dimensione di accoglienza e di compartecipazione»60 atta ad enucleare le domande fondamentali dell’esistenza.
La rappresentazione intesa come evento rituale, che completa e concreta il testo drammatico, è la declinazione comune a tutte le messinscena che stanno tessendo i nuovi fili del destino teatrale di Testori. Il tratto distintivo di questi spettacoli consiste proprio nel convogliare le potenzialità espressive della scena verso la sostanziale coincidenza di teatro e vita, di actus tragicus e verità rituale; stabilendo un rapporto con il testo che rispecchia quanto auspicato da Testori sulla dialettica del teatro: «Non più un testo ‘adoperato’ dagli attori o dal regista, bensì un testo che viene accolto, abbracciato, mentre l’autore di questo testo abbraccia e accoglie a sua volta con la stessa intensità, con la stessa profondità, attori e regista»61.
Dal palpito della tensione tra parola, scena e pubblico, che abbiamo avuto modo di avvertire assistendo agli spettacoli, ci siamo convinti che questo abbraccio invisibile si sia realizzato.
- Cfr. G. Testori, Intervista “en passant” al magnetofono con Giovanni Testori, di A. Bisicchia, programma di sala dello spettacolo I Promessi sposi alla prova, 1984. ↩
- Cfr. U. Ronfani, Dalla storia di Renzo e Lucia un grande affresco popolare, in «Il Giorno», 28 gennaio 1984. ↩
- Cfr. L. Doninelli, Una gratitudine senza debiti. Giovanni Testori, un maestro, La nave di Teseo, Milano 2018. ↩
- Cfr. G. Frangi, TESTORI/ Nuovo scacco alla mentalità borghese che c’è in noi, Cfr. www.ilsussidiario.net/news/cultura/2019/4/3/testori-nuovo-scacco-alla-mentalita-borghese-che-ce-in-noi/1866816/ ↩
- In A. Bisicchia, Testori e il teatro del corpo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p. 36. ↩
- In G. Testori, La Monaca di Monza, in Id., Opere 1965-1977, (a cura di), F. Panzeri, Bompiani, Milano 1997, p. 454. ↩
- In A. Cascetta, Invito alla lettura di Giovanni Testori. L’ultima stagione (1982-1993), Mursia, Milano 1995, p. 31. ↩
- In G. Testori, I Promessi sposi alla prova, in Id., Opere 1977-1993, (a cura di), F. Panzeri, Bompiani, Milano 2013, p. 848. ↩
- In Ivi, p. 2054. ↩
- La figura a cui Testori assegna la più forte carica di contraddizione e liminalità tragica, di penombra sempre tesa su una linea di confine, è il personaggio di Gertrude. Così il Maestro la introduce al pubblico: «L’attimo atroce del precipizio, l’attimo del buco nero e nerissimo si sta avvicinando […]! Il destino si è ormai portato sulla soglia della turpitudine e della gloria, sulla soglia dell’impossibile e sanguinante coesistenza tra grazia e peccato, luce e tenebre, inferno e paradiso!», in G. Testori, I Promessi sposi alla prova, cit., p. 897. ↩
- In Ivi, p. 847. ↩
- In A. R. Shammah, intervista rilasciata a chi scrive il 18 febbraio 2019. ↩
- Testori arriva alla scrittura dei Promessi sposi alla prova dopo un percorso di riscoperta della propria fede cattolica, legato all’elaborazione del lutto per la perdita della madre. Shammah, invece, è ebrea, da sempre schierata in prima linea contro l’antisemitismo. ↩
- G. Testori, Note ai testi, in Id., Opere 1977-1993, cit., p. 2055. ↩
- A. R. Shammah, programma di sala dello spettacolo, Cfr. www.teatrofrancoparenti.it/spettacolo/i-promessi-sposi-alla-prova/ ↩
- In S. Rimini, Incarnazioni di eros nelle Erodiadi di Giovanni Testori, in Id., Immaginazioni. Riscritture e ibridazioni fra teatro e cinema, Bonanno, Acireale-Roma 2012, p. 50. ↩
- Cfr. G. Testori, Tento di salvarmi scappando nel Seicento, intervista di A. Arbasino, in «Il Giorno», 27 aprile 1963; poi col titolo La Lombardia fantasma, in A. Arbasino, Certi romanzi, Einaudi, Torino 1978. ↩
- Certamente la ricchezza espressiva e concettuale dei lai è all’origine della loro fortuna scenica, giacché a partire dai paradigmatici allestimenti di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi (Cleopatràs, 1996, e Due lai, 1998) i ‘lamenti’ testoriani hanno ricevuto un’attenzione continua e crescente da parte del teatro contemporaneo. ↩
- In G. Testori, Tre lai, in Id., Opere 1977-1993, cit., p. 1873. ↩
- In Ivi, p. 1896. ↩
- In S. Rimini, Testori, Cleopatràs e la traduzione dell’«enfolio scespirriano», in Id., Immaginazioni. Riscritture e ibridazioni fra teatro e cinema, cit., p. 70. ↩
- In M. Gordon, Il sistema di Stanislavskij, Marsilio, Venezia 1992, p. 136. ↩
- In G. Testori, Tre lai, in Id., Opere 1977-1993, cit., p. 1872. ↩
- In Ivi, p. 1881. ↩
- In Ivi, p. 1873. ↩
- In Ivi, p. 1914. ↩
- G. Testori, intervistato su «Il Sabato», 31 ottobre 1981, ora in Id., Opere 1977-1993, cit., p. 2004. La dimensione rituale, mossa da una forte intenzionalità di partecipazione, pertiene da subito a Conversazione con la morte: il monologo, infatti, fu scritto per il grande attore Renzo Ricci, che però morì prima di poterlo interpretare; allora Testori decise di salire lui stesso sul palcoscenico, debuttando al Salone Pier Lombardo il 1° novembre 1978. Dopo quell’evento l’autore continuò la lettura di Conversazione nelle chiese, con oltre trenta repliche in tutta Italia e una partecipazione collettiva sempre altissima. Undici anni più tardi, nel 1989, l’interpretazione di Tino Carraro con la regia di Lamberto Puggelli ottenne un successo trionfale; mentre rientrano nel post-Testori le letture di Eros Pagni (2013) e di Toni Servillo (2018), e la messa in scena di Antonio Ferrante (2016). ↩
- Testori stesso definì Conversazione «una piccola ‘albetta’, […] un mormorio, una confessione» in G. Santini, (a cura di), Giovanni Testori. Nel ventre del teatro, Quattroventi, Urbino 1996, p. 71); e più avanti, nelle sue conversazioni con Luca Doninelli, dichiarò: «Il teatro che cos’è? È il bisogno di pronunciare una richiesta di perdono attraverso una confessione […] la confessione è un fatto, non la si può teorizzare. O accade o non accade. Il teatro è questo», in L. Doninelli, (a cura di), Conversazioni con Testori, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2012, p. 53. ↩
- In G. Testori, Conversazione con la morte, in Id., Opere 1977-1993, cit., p. 14. ↩
- In Ivi, p. 35. ↩
- In Ivi, p. 28. ↩
- In Ivi, p. 35. ↩
- In G. Taffon, Lo scrivano, gli scarrozzanti, i templi. Giovanni Testori e il teatro, Bulzoni, Roma 1997, p. 164. ↩
- Come ricorda Andrée Ruth Shammah: «Gli scarrozzanti rimasero la base emblematica della nascita del Pier Lombardo, questo teatro sgangherato al quale i testi alludono spesso», A. R. Shammah, citata in G. Santini, (a cura di), Giovanni Testori. Nel ventre del teatro, cit., p. 116. Difatti accadde che Testori, andato a vedere Franco Parenti che recitava La Moscheta di Ruzzante, rimase a tal punto folgorato dall’espressività dell’attore che elaborò per lui il personaggio dello scarrozzante e la lingua incandescente della trilogia, con la quale ebbe inizio l’attività del Pier Lombardo. ↩
- In R. De Monticelli, L’urlo e la provocazione di Testori, in «Corriere della Sera», 23 ottobre 1974. ↩
- L. Mango, Il Novecento del teatro. Una storia, Carocci, Roma 2019, p. 328. ↩
- In G. Testori, Note ai testi, in Id., Opere 1965-1977, cit., p. 1539. ↩
- Cfr. R. Magnani, intervista su Radio3 Suite, 10 settembre 2018. ↩
- In G. Testori, Macbetto, in Id., Opere 1965-1977, cit., p. 1277. ↩
- In Ivi, p. 1245. Rispetto al ribaltamento dei ruoli di genere tra Macbet e la Ledi, vale la pena citare quanto egli stesso le dice dopo aver partorito la strega: «E te, virilissima mia sposa / e maritata! […] Il cazzo ce l’hai te, / sempre t’el dissi; / la figa arei doruto averla io! / E ’desso ariamo il cazzo in due, / anzo, con lei, in tre!», Ivi, p. 1245. Anche la ‘stria’ contribuisce al dileggio del protagonista: «Sei re o invece segnorina vanesia e tremabonda?», Ivi, p. 1270. ↩
- R. Magnani, intervista su Radio3 Suite, cit. ↩
- In G. Testori, Macbetto, in Id., Opere 1965-1977, cit., p. 1244. ↩
- In Ivi, p. 1247. ↩
- In G. Testori, Edipus, in Id., Opere 1965-1977, cit., p. 1327. ↩
- In Ivi, p. 1340. ↩
- Cfr. R. Trifirò, intervistato da A. Simone, Edipus: la sfida luciferina di Giovanni Testori, Cfr. https://teatro.online/edipus/ ↩
- In G. Testori, Mater strangosciàs, in Id., Opere 1977-1993, cit., p. 1982. ↩
- Ci riferiamo agli spettacoli di Tiezzi e Lombardi di poco successivi alla scomparsa dell’autore: Edipus (1994), Cleopatràs (1996) e Due lai (1998), seguiti da L’Ambleto (2001), Erodiàs (2008) e I Promessi sposi alla prova (2010). L’ampio lavoro scenico condotto degli artisti toscani sull’opera di Testori è stato fondamentale per la sua riscoperta; tuttavia, se al debutto del loro Edipus Giovanni Raboni scriveva che «si può dire che esso inauguri l’epoca della ‘sopravvivenza’ del teatro di Testori dopo e al di là della sua vita originaria e ‘autorizzata’» (G. Raboni, Edipo insorge nel nome dell’anarchia, «Corriere della Sera», 17 gennaio 1994), lo scenario corrente della ricezione testoriana dimostra che si è andati ben oltre la mera sopravvivenza della sua drammaturgia, la quale ha raggiunto invece una presenza costante e sempre più vitale sui palcoscenici italiani. ↩
- Prendiamo qui in prestito il concetto di ‘disambientazione’ dall’attento studio di Elena Porciani sulle riletture e riscritture novecentesche della figura mitologica di Antigone, Cfr. E. Porciani, Nostra sorella Antigone. Disambientazioni di genere nel Novecento e oltre, Villaggio Maori, Catania 2016. Il paragone tra l’archetipo sofocleo e il teatro testoriano può apparire azzardato, eppure riteniamo che anche quest’ultimo rappresenti ormai un classico, che diversamente dalla tragedia di Antigone è oggetto di riprese attualizzanti ma non di spostamenti esegetici. ↩
- In G. Taffon, Dedicato a Testori. Lo scrivano tra arte e vita, Bulzoni, Roma 2001, p. 125. ↩
- In A. Cascetta, Invito alla lettura di Giovanni Testori. L’ultima stagione (1982-1993), cit., p. 56. ↩
- In G. Testori in G. Santini (a cura di), Giovanni Testori. Nel ventre del teatro, cit., p. 72. ↩
- Ricordiamo anche le riflessioni di Testori contenute nel manifesto Il ventre del teatro (1968), che si pongono in stretta consonanza con il focus sull’attorialità manifestato in quegli anni dal Living Theatre, da Grotowski, da Pasolini, da Bene. Se a ciò si aggiunge la specificità della prassi scrittoria di Testori, dedita a creare i suoi personaggi ‘cucendoli addosso’ a determinati interpreti, non restano dubbi sull’assoluta centralità attoriale della sua proposta drammatica. ↩
- In Ivi, p. 44. ↩
- In R. Dyer, Star, London, BFI, 1998, trad. it Star, Kaplan, Torino 2009, pp. 163-181. ↩
- In G. Guccini, Biografic-theater. Osservazioni sulle rigenerazioni contemporanee dell’attore interprete, in I. Frie, (a cura di), Identità italiana e civiltà globale all’inizio del ventunesimo secolo, Eötvös Loránd Tudományegyetem – Ponte Alapítvány, Budapest 2012, p. 101. ↩
- In Ibidem. ↩
- A tal proposito Taffon evidenzia: «La scrittura di Giovanni Testori è tra le poche, nel teatro italiano del Novecento, in grado di “provocare”, proprio etimologicamente di “chiamare verso e a favore di sé”, gli uomini (e donne) di scena […]» in G. Taffon, Dedicato a Testori. Lo scrivano tra arte e vita, cit., p. 135. ↩
- In C. Meldolesi, Forme dilatate del dolore. Tre interventi sul teatro di interazioni sociali, in «Teatro e Storia», vol. 33, annale 2012, p. 358. ↩
- In G. Santini, (a cura di), Giovanni Testori. Nel ventre del teatro, cit., pp. 75-76. ↩
- In Ivi, p. 74. ↩