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n°9 – April 21, Theater

The ground, the opacity, the shimmer

A conversation between Alfonso Cariolato and Jean-Luc Nancy

to quote this article use

https://doi.org/10.47109/0102290104

Robert Frank, Children with sparkles in Provincetown, 1958. © Robert Frank

November 2020
Translated from the French of Alfonso Cariolato
This article is only accessible in Italian

ABSTRACT

The conversation focuses on the metaphysically denoted concepts of light and darkness, to rethink their value and problematic nature. An interpretative grid of this type, in fact, shows all its inadequacy to understand today’s world. Added to this is the questioning of the presuppositions underlying the model of vision. Considering different areas – from the origins of art to the danger connected to the abyss of finitude, from the penetration of caves and bodies to the other side of vision, from ground to shimmer –, the specificities and difficulties of this moment are highlighted, since they are also those of thought. It is necessary to grope, in the general darkening of the world. In the dim light we are experiencing, neither clear light nor dark night, but continuous passing from one to the other, each time we receive an entire visual atmosphere. Opaque, perhaps; but open to what cannot yet be seen and foreseen.

Alfonso Cariolato Questo nostro tempo si direbbe sfavillante di luce, e tuttavia noi non facciamo che vagare von Dunkel zu Dunkel, di oscurità in oscurità, come dice Paul Celan. Le luci perennemente accese a scongiurare il buio, i riflettori, gli schermi luminosi, i segnali visivi, le stesse luci della ribalta, la luminosità spettacolare, tutto sembra non voler lasciare spazio alla notte. Ma ognuno percepisce che il buio incombe, è in agguato. Specie in momenti come quello che stiamo vivendo. D’altra parte, come non sapere che troppa luce acceca – non si può guardare dritto nel sole. Platone ricorda come gli astronomi non osservino il sole direttamente, quanto piuttosto la sua immagine riflessa nell’acqua, e fa di questo metodo il paradigma della filosofia. Fissare gli occhi su una fonte luminosa, infatti, è tanto insopportabile e temibile quanto muoverli disperatamente, come perduti, nella totale assenza di luce. Noi esistiamo tra due abissi speculari: le tenebre e l’abbacinamento. D’altronde, Derrida invitava a tornare «su quella metafora dell’ombra e della luce (del mostrarsi e del nascondersi), metafora fondatrice della filosofia occidentale come metafisica»1.

Tu non usi molto spesso la parola «luce», o comunque non più dei termini appartenenti al campo semantico dell’oscurità (tra i quali, in particolare, «le tenebre» – una parola ricca di moltissime implicazioni). D’altronde, «luce» è un termine talmente sovraccarico di significati, di riferimenti, di automatismi (dal mito alla scienza, dall’arte alla politica, dalla religione alla filosofia) da apparire pressoché inutilizzabile, se non in un senso tecnico ben definito. Tu preferisci il lucore alla luce. Lo scintillio, il baluginare, il bagliore che viene dal fondo – all’improvviso, inaspettatamente, e sempre mediante e per l’altro. Il fondo – tu scrivi – è inesauribile. Grund, ma anche Abgrund. Qui il linguaggio riecheggia quello dei mistici, Meister Eckhart, in particolare – nonché Heidegger, naturalmente, e forse ancor più Hegel. Ma in te non c’è traccia di mistero e della retorica che alcuni vi leggono. Piuttosto, si tratta del grande tema della finitudine, ma non intesa come mancanza, bensì come presenza (praes-entia) che «si precede e si succede […] e per sempre eccede ogni essenza»2. In altre parole, l’esistenza.

Di questo fondo, infatti, niente si può dire, se non che l’esposizione (e dunque il rischio, l’avventura) ne è il suo correlato esistenziale. Nascere, morire, sentire, pensare, amare… in un mondo condiviso, che si fa ogni volta, grazie a venute di senso singolari e plurali. Ebbene, dal fondo non trapela nulla. O quasi. Anzi, forse esso è nulla. Del resto, a proposito della creazione tu scrivi: rien, res, «sortir de rien» – il niente, la cosa, come materia prima o reale che esce e si forma da sé. Ma, dicevo, dal fondo – sempre indirettamente, perché niente mai si dà direttamente – proviene un bagliore che ci prende alla sprovvista. Mediante l’altro, per l’altro, poeticamente, nel semplicemente esistere, nel fare senza progettualità e finalità, da un precedere che fa segno a un al di là di me, di te, di noi; ecco ogni volta il fare del senso che nessuno può prevedere, determinare, dominare. Non c’è autore né creatore. Il bagliore può essere solo captato per un istante. Si direbbe una luce buia, o una luce che invece di negare l’oscurità la rende piuttosto in qualche modo visibile, nella sua vibrante non visibilità.

Ora, che ne è di questo bagliore? Con quali occhi riusciamo a vederlo? In un passo dello Shōbōgenzō, Dôgen scrive: «[…] ci sono migliaia di occhi nel momento prima del corpo, ci sono migliaia di occhi nel momento prima della mente, ci sono migliaia di occhi di morte nella morte, ci sono migliaia di occhi di vitalità nella vitalità […]»3. Mi piace questa bizzarra molteplicità di organi visivi (un puro vedere, ma reiterato indefinitamente in luoghi o posizioni differenti), che sembra ricoprire ogni momento dell’esistenza, fino a toccare il prima della vita e il dopo la morte – e dunque l’immemoriale, il non emotivo e addirittura l’impossibile. Il bagliore, sempre già passato e ancora da venire, fa segno verso un qui e ora che deborda da ogni parte, incontenibile, e che tuttavia non è altro che ciò che siamo. Così, dire: «Abbiamo bisogno di luce» potrebbe finalmente essere nient’altro che l’espressione paradossale di una nostalgia del nostro esistere insieme, del nostro durare e passare. Insomma: della nostra splendente e straziante vitalità. Perciò ti chiedo – ironicamente, ma non troppo – Custos, quid noctis?

Jean-Luc Nancy Mi piace molto la tua domanda, perché quelle parole di Isaia sono sempre presenti in un angolo del mio granaio o della mia officina … Del resto, non so perché. Fanno parte dei motivi ossessivi. E si mescolano inoltre per me all’inizio dell’Orestea di Eschilo, dove una vedetta nella zona del porto di Argo attende i segnali che annunceranno l’arrivo della flotta di Agamennone. Questi segnali sono fuochi accesi da una cima all’altra … Una paziente tele-trasmissione dell’epoca. Ora, questi fuochi devono risplendere nella notte. Non rischiarano la notte, ma puntellano un percorso, accompagnano un avvicinamento.

In effetti, le vedette di Isaia e di Eschilo hanno qualcosa in comune – vale a dire la loro stessa funzione di vedetta. Devono aprire gli occhi nella notte, sulla notte, per vedere apparire – o non apparire – i segni di una venuta, di una presenza annunciata, di un evento, di una novella. Penso al gran numero di vedette di quei tempi … Penso a un mondo in cui vi è della lontananza, del non visibile e del poco visibile, con la necessaria attesa di ciò che può, di ciò che potrebbe, arrivare. La sentinella e la vedetta, il guardiano, la guardia sono personaggi familiari in questa storia. Come il marinaio sulla coffa nella storia della marina. «Sentinelle» viene da una parola italiana composta sul verbo «sentire», entendre – un «sentire» che da solo cattura tutti i sensi. La sentinella tende l’orecchio, il marinaio sulla coffa veglia con gli occhi spalancati, la vedetta scruta, spia, cerca di cogliere il minimo indizio. Essi si preparano a suonare l’allarme o a dare l’annuncio. Chi va là?

Se ho sempre avuto un’affezione estetica per tali scene è perché oggi, direi, siamo in una notte che si protrae, si accresce, nella quale non s’annuncia alcun nuovo giorno – ma dove bisogna appunto vegliare, stare all’erta. Bisogna dunque vedere che cosa può tremolare nella notte: un bagliore (lueur), come dici tu. Il verbo luire [brillare, illuminare, risplendere, emettere un bagliore] conserva qualcosa del lampo («un fulmine illumina (lui) la notte»), ma ha anche un valore attenuato, ossia quello di un riflesso o di una luce pallida, velata, indecisa. Si parla di buon grado dei «chiarori dell’alba» o di quelli del crepuscolo – una luce fioca o un riflesso, un tocco leggero.

In modo caratteristico, il bagliore è anche il brillio dei vers luisants o delle lucciole (lucioles), di quelle lucciole di cui parla Pasolini e che Didi-Huberman ha commentato. Non precisamente i Lumi del grande sole della Ragione, ma ciò che sussiste, debole e sparso, in quell’oscurità che oggi stiamo vivendo, dove la ragione più che luminosa è diventata calcolatrice.

Il calcolo è una sorta di opposto della chiarezza. Di certo funziona, ed è anche verificabile – ma ciò che accade nel calcolo rimane oscuro. Si contano i dati per trarne dei piani, ma tanto la natura dei dati quanto la logica dei piani permangono oscure. Che cosa sono le statistiche se non un oscuramento del vivente, del pensante, del desiderante?

Ma tale oscurità proviene da un oscuramento della stessa luce. Ad esempio, i «diritti umani»: niente era più brillante o più eclatante, ma vengono oscurati a partire dal momento in cui questi diritti si confondono impercettibilmente con delle regole formali, destinate ad amministrare individui e gruppi già condizionati dal mercato, dalla pubblicità e da una quantità di dipendenze tecno-economiche (elettricità, gas, tecno-scientificità, voto democratico: tante presunte fonti di chiarezza che tuttavia nascondono un grigiore indistinto – quel grigiore che Hegel per primo ha riconosciuto come la triste colorazione di un mondo privo dei colori della vita). Ecco allora ciò che vedo nella notte: un pallido baluginio di segnali di indigenza…

Tuttavia, non pretendo di sapere dove si trova o quale possa essere la fonte luminosa di cui avremmo bisogno. Forse è meglio passare attraverso un tempo di penombra e di bagliori incerti – per scoprire una nuova visione.

A.C. Volevo ora parlare di un altro fondo, di un’altra oscurità. Anni fa, visitando la grotta di Niaux, a un certo punto – risalendo dal Salon noir – la guida ci chiese di fermarci e di spegnere le torce. All’improvviso, il buio più profondo ci avvolse da ogni parte. Non avevo mai sperimentato in tutta la mia vita un’oscurità più cupa e totale. Ovunque guardassi, un nero impenetrabile e denso, pressoché assoluto, e per me nuovo, sembrava inghiottirmi. Durante il Paleolitico – e precisamente nel Magdaleniano, tra 17.000 e 11.000 anni fa – l’Homo sapiens era sceso in quella grotta alla luce tremolante delle torce e aveva poi inciso, dipinto, scolpito sulla roccia o sul suolo. Al di là di ogni altra considerazione, è l’aspetto dell’affrontare l’oscurità che mi interessa. Si trattava, in prima istanza, di orientarsi nel buio. È come se gli uomini preistorici dovessero conquistare un nuovo elemento. Inoltrandosi nelle caverne, lasciandosi alle spalle la luce del sole, erano mossi dal desiderio, dall’impulso di vedere dove non si vede e, quindi, di far vedere là dove nulla è a prima vista visibile. In altri termini: uscire dal buio restando nel buio. Vedere l’oscurità, ma anche mostrarla in qualche modo. Immersi nel buio, se ne distanziavano con la luce delle torce e così facendo erano in grado di segnare un territorio, rendendolo praticabile mediante i segni e le infinite sfumature dei pigmenti che utilizzavano, le ocre gialle, le ocre rosse e il nero.

Ora, credo che tutto questo (uscire da un fondo oscuro, distanziarsi e segnare un territorio) abbia a che fare con le “origini” dell’arte. Fare i conti con l’oscurità, resistervi o sprofondarvi anche, delimitare e aprire porzioni di spazio-tempo, lavorare su luci e ombre, gradazioni e tonalità, reimpostare ogni volta questo rapporto, ripensarlo, rigiocarlo (e rigiocarsi) a differenti livelli è forse quanto muove – più o meno coscientemente – le differenti tecniche artistiche. Henri Michaux sembra riferirsi a questo buio quando scrive a proposito della propria esperienza pittorica: «Nero di scontentezza. Nero disinibito, senza compromessi. Nero che va con l’umore collerico; che fa pozza, urta, passa su qualunque corpo, supera tutti gli ostacoli e precipita giù spegnendo ogni luce: divorante nero»4. Se la pittura ha a che fare con il non visibile (e con l’irrappresentabile), la musica con l’inudibile, e la poesia con l’indicibile, ciò accade perché innanzitutto gli uomini, vivendo, si misurano con l’incommensurabile – con il nero, appunto.

Ne Les Muses tu scrivi che l’uomo che dipinge le grotte esce dalla presenza pura, presenta e si presenta, mostra (egli, infatti, è l’Animal monstrans). Soprattutto, così facendo, incidendo e dipingendo gli altri animali a lui simili, mostra sé come un estraneo, lo straniero che è. Ecco il «prodigio» che concerne la pittura già nella notte dei tempi, quello dell’uomo «sorpreso davanti a sé»5. Mi chiedo, tuttavia, se oltre a ciò non vi sia da insistere maggiormente sulla dimensione altra che l’estraneità dell’uomo sembra peraltro richiamare. Mi riferisco in particolare al suo – complementare – tentativo di fare esperienza della realtà, o meglio: dello choc che, nel bene o nel male, è la realtà. In altre parole, in gran parte dell’arte – specie contemporanea, nelle diverse sue manifestazioni: dal cinema alla performance, dall’installazione al paesaggio sonoro, da certo teatro al Walkscape – sempre più spesso sembra essere questione di un incontro, di una ridefinizione delle distanze, di uno scambio, a volte calmo a volte violento, ricercato anche (ma non sempre) con grande profusione di mezzi tecnologici, che, quando non scade nella mera fusione e in una rêverie inane, mette innanzitutto in questione il nostro rapporto con una quotidianità sentita sempre più come distante e fantasmatica.

Che cosa pensi in proposito?

J.-L.N. La tua descrizione dei nostri antenati che scendono nella caverna per conquistare l’oscurità è assai impressionante e convincente. Il più delle volte si pensa alle possibilità offerte dalle pareti delle caverne, il che presuppone che la caverna sia già vista e illuminata. Ora, perché addentrarsi in queste tenebre se si fosse trattato soltanto di trovare muri da dipingere? Per lo meno, si sarebbe potuto rimanere più vicini all’ingresso delle caverne o nelle cavità ampiamente aperte come se ne vedono sulle falesie lungo la Dordogna, per esempio. (Vi sono altri luoghi, nel Sahara, negli Stati Uniti, in Norvegia, dove i cugini di questi antenati hanno dipinto e inciso all’aria aperta e in pieno giorno).

Mi fai pensare che qui il motivo principale – senza per questo escluderne altri – potrebbe essere quello della penetrazione. Entrare all’interno, dove il fuori si cancella. Andare in fondo – cioè fare altresì l’esperienza dell’insondabile di tale fondo. Non perché si possa scendere sempre più in profondità, ma perché, una volta usciti dalla luce e dallo spazio aperto – dalla circolazione e dallo sguardo verso la lontananza – si sente che non si è in un prolungamento di tutto questo, che risulterebbe più oscuro, né in un capovolgimento (sebbene indubbiamente ciò sarebbe già meno falso), quanto piuttosto in un altrove, dove la visione si perde e che diventa il luogo di una mostrazione (il contrario di una visione, in un certo qual modo).

Penetrazione è una parola che ha una forte connotazione sessuale, connotata a sua volta essa stessa di violenza. Può trattarsi di una violenza rituale o quasi sacrificale (come in Bataille, che parla della «ferita» della donna) o molto più spesso nel discorso attuale sullo stupro, ma anche di una violenza che si suppone quasi inerente alla sessualità maschile (poiché si tratta sempre della sfera eterosessuale e dell’accusa di pratiche predatorie; l’omosessualità non è mai considerata da questa angolazione). Ora, è da molto tempo che cerco di chiarire come la penetrazione non sia necessariamente una forzatura. La penetrazione può, deve, essere delicata – e la cosa più importante da capire è che lo è di per sé, poiché essa non forza un passaggio là dove non c’è – come nel caso di una coltellata (lascio qui da parte la questione dell’imene – di cui ha parlato Derrida – che ci porterebbe troppo lontano). È il corpo che vuole essere penetrato – e ho fatto tutta questa digressione per ritornare alle caverne, le quali sono come un appello della profondità oscura a essere penetrata …

Oggi la terra è perforata da tutte le parti, scavata da mine, da rifugi sotterranei, da basi per il lancio di missili – si può dire che è perforata e violentata piuttosto che penetrata … Lo stesso vale, bisogna dirlo, per la volta celeste crivellata di satelliti, navette spaziali, aeroplani e spessi strati di gas «a effetto serra», di modo che l’oscurità profonda, cosmica, non è più il cielo stellato ma uno spazio da illuminare, fotografare, filmare e attraversare, mentre sulla terra si spande una nebbia inquinata che continuiamo a rendere sempre più densa. Da qui proviene probabilmente ciò che tu percepisci come una ricerca delle giuste distanze – possibilità di incontri anziché necessità di collisioni. C’è nel polimorfo «tele-» (televisione, telecomando, teletrasporto, telescopio …) una compressione delle distanze e dunque una compressione della loro imprecisa chiarezza, della loro capacità di delinearsi e illuminarsi nel mentre ci si approssima, in luogo di essere perlustrate dai riflettori. Allora, sì, camminare, avvicinarsi, incrociarsi, allontanarsi diventano esperienze dimenticate, da reinventare, là dove la passeggiata, invece, quella l’abbiamo conosciuta …

A.C. In molti tuoi testi hai insistito particolarmente sulla necessità dell’opacità, vale a dire della densità materiale – e dunque del conseguente incontrarsi e scontrarsi dei corpi – affinché si dia un cosmo. Non c’è luce, non c’è Idea, senza materia e dramma. O, almeno, non vi sarebbe presentazione della creazione. Riferendoti a un saggio di Artaud, tu sottolinei come la stessa espressione della luce non possa che avvenire «“in forma solida e opaca”»6. Ecco allora che l’intrinseca capacità della luce di diffondersi – quella che i filosofi medievali chiamavano diffusio – si risolve conflittualmente, e senza resto, in extensio. L’opacità, le varie gradazioni del coefficiente di trasparenza, la distinzione, la separazione e la molteplicità dei corpi – tutto questo è l’idea realizzata del cosmo (ritiro dell’essere, partizione/condivisione delle esistenze). Così, il mondo plurale e spazializzato che è il nostro è il luogo dove non c’è limite al dilatarsi infinito delle sfumature, dei toni, dei gradi e delle intensità. Il morto che si racconta una storia ne Le calmant di Beckett ne è ancora intriso, si direbbe, con una certa disperata voluttà: «La mia ombra, una delle mie ombre, mi si slanciava davanti, si accorciava, mi scivolava sotto i piedi, mi inseguiva come fanno le ombre. Essere opaco fino a quel punto, mi sembrava conclusivo»7.

Ora, l’esposizione dei corpi, dove ogni intimità si rovescia in un fuori – ogni presenza, dunque – costituisce il proskenion, ossia la presentazione che è il mondo, o meglio: il cosmo. Da qui il dramma, l’azione, il conflitto. Tuttavia non c’è spirito tragico in te. E neppure un atteggiamento ascetico o, al contrario, passionale. Né imperturbabilità né smania. Il tuo pensiero, lo stile della tua scrittura, inaugura un approccio all’esistenza – un ethos, se vuoi – passionale nel distacco e distaccato nella passione. La gioia di esistere non dimentica i dolori del mondo e, viceversa, nessuna lacerazione arriva a scalfire la tua fiducia nella vita. Rispondere al richiamo dell’aperto, alla chiamata di nulla che, tuttavia, in qualche modo chiama: mi sembra di sentire questo nel leggerti, nel parlarti.

Esistenza finita e per questo incondizionata. Gli uomini vivono questa vertiginosa esperienza (e, forse, chissà, ogni ente in termini diversi e muti esplica questa condizione – il gatto, l’acero come anche la nuvola o il ciottolo lungo la riva del fiume …). E tuttavia l’uomo – tu scrivi – nel gesto di adorazione riconosce «un passaggio in superamento infinito», per subito aggiungere che tale gesto «riconosce il fatto che non può esserci propriamente un riconoscimento del superamento infinito». Ora, è questo abisso che sempre più spesso viene messo in pericolo, occultato, negato, disconosciuto dallo stesso agire e dal fare degli uomini. Del resto, l’abisso non è soltanto motivo per il sublime, ma è anche il baratro dove ci si perde – puro e semplice sfacelo.

Quando nel teatro di Dioniso, ad Atene, si rappresentava l’Antigone di Sofocle e il coro celebrava la partenza dell’esercito dei Sette che aveva assediato la città, nel momento in cui iniziava la parodo con le parole Aktis aeliou, «Raggio di luce», gli spettatori vedevano effettivamente il primo raggio di sole – vale a dire la «luce più bella (to kalliston … phaos)» – sorgere nel cielo. Le rappresentazioni tragiche, infatti, iniziavano sul far dell’alba. La luce naturale si confondeva con la luce del linguaggio. Questa coincidenza ci è ormai sconosciuta. D’altronde, ne siamo usciti – nessuna nostalgia in tal senso. Ci restano le voci, i gesti, le parole, le posture con cui facciamo l’amore, parliamo, corriamo, ammicchiamo, lavoriamo, mangiamo, partecipiamo, esistiamo. Ma questa nuda teatralità dei corpi – vale a dire la comparizione, e tutto ciò che questa comporta: la luce e le ombre, l’incanto e l’avversione, l’assenso e il rifiuto – vive di venute di senso, fragili, precarie, discontinue. In una parola: finite. Ora, che ne è del pensiero scosso da tutto questo? Non parlo tanto della filosofia, ma del pensiero (forse mai come adesso si rende necessaria questa distinzione). È sufficiente non rivolgersi a niente e dunque rivolgersi al niente di questo corpo, di questi corpi esposti? Che cosa significa pensare in un mondo posto da nulla e per nulla?

J.-L.N. Come hai detto molto bene, l’abisso del superamento infinito sul quale apre la nostra finitudine è oggi messo in pericolo o addirittura negato dall’azione stessa degli uomini. È questo che pone un formidabile problema al pensiero, che prima di tutto è il problema della filosofia in quanto tale. La filosofia è sempre una visione del mondo – il che non significa semplicemente una rappresentazione, ma la possibilità di una chiarezza sufficiente per lasciare apparire le nostre esistenze, i nostri gesti e anche le nostre scomparse, le nostre morti che suggellano la finitudine. Ora non è più possibile avere tale chiarezza – che fu quella dell’Idea di Platone o dello spirito di Hegel – perché abbiamo simultaneamente, da una parte, immerso il mondo intero in una potentissima illuminazione tecnica (tanto perlustrando le galassie quanto sezionando i neuroni e il DNA) e, dall’altra, rigettato ciò che non rientra in questa illuminazione – che appunto è l’abisso in questione. In fondo, si tratta di tutto ciò che si riunisce sotto il nome di «metafisica». Così, a partire da Heidegger e dai suoi migliori interpreti, abbiamo compreso che non potevamo più riconoscerci in una «metafisica della presenza» (questa è più un’espressione di Derrida) – quella metafisica, cioè, la cui parte essenziale è un Essere supremo (questo Dio che è morto), ossia un Divenire supremo (una produzione progressiva dell’«uomo totale»). Tutto ciò è divenuto fitta tenebra, priva di qualsiasi chiarezza o addirittura di qualsiasi bagliore.

Il caso più evidente è quello della morte: i nostri morti non sono più da nessuna parte, né in cielo né sotto terra, non ci ossessionano più come fantasmi. Sono ombre dissolte in un’oscurità che è essa stessa estranea alla coppia ombra e luce. L’unica e assai oscura chiarezza che abbiamo sulla morte è la sua vitale appartenenza alla vita stessa. Ma anche di questa chiarezza noi non sappiamo che farne. Ormai. l’umanità sembra esistere senza passato (in ogni dove si deplorano i passati perduti … ma, di fatto, noi ne facciamo sempre più a meno nella cultura e nell’educazione). Tu citi Sofocle, ma la nostra cultura tende a non servirsi più di Sofocle né di tanti altri. Di conseguenza, anche questa cultura è senza «a venire», senza un approccio incerto e fremente a qualcosa di sconosciuto. Essa è piuttosto nel «futuro», vale a dire nella proiezione di un risultato già ottenuto, già calcolato e dunque già immerso nella chiarezza abbagliante dei riflettori da milioni di watt. Ma, in questo futuro, la morte è se possibile ancora più oscura. Quindi, è per noi necessario guardare questa oscurità. È necessario discernere se ci può essere qualche altro bagliore rispetto a quelli dei forni crematori, il cui uso si sta diffondendo per necessità di spazio – un altro modo per distogliersi dalla terra, dalle sue caverne e dai suoi abissi.

Per molti esseri umani è indispensabile proiettare sulla morte la luce variegata, nonché le immagini, di un’«altra vita». Ma, per la stessa civiltà tecno-economica, in tutta la sua razionalità calcolante, tale immaginario non ha senso alcuno. D’altronde, è per questo che si cerca di cancellare la morte, di prolungare indefinitamente la vita. All’infinito dell’abisso si vuole sostituire l’indefinito di una «transumanità».

Che cosa potrebbe risplendere non malgrado la morte, ma dalla morte stessa? Quale specie di luce sconosciuta? L’arte senza dubbio ha sempre fatto brillare questa luce – a partire dalle pitture delle caverne. Ma, certamente, la possibilità delle pitture parietali era dovuta alla consistenza del gruppo – clan o tribù – di cui gli artisti erano i ricognitori (éclaireurs). Oggi, l’umanità sembra priva di consistenza e ogni comunità sembra essere una parodia di se stessa. Come vedi, caro Alfonso, non ho più gli accenti della gioia e dell’aperto di cui parlavi. Provo infatti un oscuramento tale che non posso fare a meno di essere colto dalla paura. Come un bambino nel buio. E come un adulto, anche. Non resta che brancolare, toccare le pareti della caverna, sfiorare gli altri corpi, e forse alla lunga ricevere uno strano bagliore … chi lo sa?

In ogni caso, è possibile aggiungere qualcosa, che non apporta più luce ma che può essere incoraggiante. La necessità di guardare in faccia l’abisso o la morte è già stata sottolineata da Hegel. Ricorderai: «Lo spirito non è ciò che si ritrae davanti alla morte, ma ciò che permane in essa (ce qui séjourne en elle)», e questa «permanenza (séjour)» non si compie con un supposto compimento dialettico, perché Hegel puntualizza come anche l’ultimo tempo della dialettica – la negazione della negazione – non sia mai in riposo. Al contrario, esso è in un incessante andirivieni tra l’affermazione che si potrebbe credere finale e la negazione che rimane in essa e non le lascia tregua. Tutto questo può sembrare astratto, ma niente è più concreto: noi non esistiamo mai in pieno giorno, né in piena notte. Trascorriamo dalla notte al giorno e dal giorno alla notte. Un bagliore è sempre tanto dell’alba quanto del crepuscolo. Forse non siamo mai in grado di distinguere completamente. Forse l’oscuramento generale del mondo è il preludio di altre aurore. Il che non impedisce che si debba attraversare a lungo campi in fiamme, lampi di deflagrazioni e una pesante angoscia … Ma si può andare avanti, lentamente, a tentoni … Non soltanto a tentoni con le mani, ma anche con le orecchie, con le narici – più difficilmente con la lingua, ma perché no? – e soprattutto con tutta la sensibilità o con tutta la ricettività …. Vedere/ricevere (voir/recevoir) è una rima che si può fare in francese… Credo che tutto questo nostro scambio induca soprattutto a pensare che nel privilegio spesso notato – e decostruito – del modello metafisico della visione vi sia un presupposto soggiacente: che la visione sia attiva e che noi poniamo gli oggetti della visione davanti a noi. Ma questa è una visione ispettrice, sorvegliante, che privilegia gli oggetti chiari e netti, con forme e colori ben definiti. Ora, la pittura o la fotografia ci insegnano praticamente il contrario: noi riceviamo un’intera atmosfera visiva – noi siamo nei paesaggi prima di essere davanti agli oggetti. Anche questa è una delle lezioni delle pitture parietali. Si sente, infatti, come esse siano visioni ricevute, impregnazioni dello sguardo che diventano impregnazioni della parete rocciosa, delle sue superfici e dei suoi rilievi, delle sue tinte. Si dice che le forme «risaltino» sullo sfondo, ma bisogna aggiungere che vi si fissano pure, o che lo attaccano nella loro venuta, nella loro mostrazione. Noi riceviamo sempre il fondo delle cose. L’apparire porta effettivamente l’essere. E, di più, nell’apparire vi è sempre anche qualcosa dello scomparire.

  1. Jacques Derrida, Forza e significazione, in Id., La scrittura e la differenza, trad. it. di Gianni Pozzi, Einaudi, Torino 1971-1982, p. 34 (ed. orig. Force et signification, in Id., L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967).
  2. Jean-Luc Nancy, Nudità (ouverture), in Id., Il pensiero sottratto, trad. it. di Mario Vergani, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 27 (ed. orig. Nudité (ouverture), in Id., La pensée dérobée, Galilée, Paris 2001).
  3. Dōgen Zenji, Mujō-seppō. The Non-emotional Preaches the Dharma, in Id., Shōbōgenzō, trad. ingl. di Gudo Wafu Nishijima and Chodo Cross, III, Numata Center for Buddhist Translation and Research, Berkeley (California) 2008, p. 164 [trad. mia].
  4. Henri Michaux, Emergenze-Risorgenze, in Id., Sulla via dei segni, a cura di Lucetta Frisa, Graphos, Genova 1998, p. 18 (ed. orig. Émergences-Résurgences, in Id., Œuvres complètes, III, Gallimard-La Pléiade, Paris 2004).
  5. Jean-Luc Nancy, Pittura nella grotta, in Id., Le Muse, trad. it. di Chiara Tartarini, Diabasis, Reggio Emilia 2006, p. 101 (ed. orig. Peinture dans la grotte, in Id., Le Muses, Galilée, Paris 1994).
  6. Antonin Artaud, Il teatro alchimistico, in Id., Il teatro e il suo doppio, pref. di Jacques Derrida, a cura di Gian Renzo Morteo e Guido Neri, Einaudi, Torino 1968-2000, pp. 165-169: 168 (ed. orig. Le théâtre alchimique, in Id., Lethéâtre et son double, Gallimard, Paris 1964); citato in Jean-Luc Nancy, Corpo teatro, trad. it. di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli 2010, p. 20 (la versione originale francese, Corps-théâtre, è stata in seguito pubblicata in Alexandra Poulain (éd.), Passions du corps dans les dramaturgies contemporaines, Presses Universitaires du Septentrion, Lille 2011).
  7. Samuel Beckett, Il calmante, in Id., Racconti e prose brevi, a cura di Paolo Bertinetti, trad. it. di Carlo Cignetti, Einaudi, Torino 2010, p. 79, trad. lievemente modificata (ed. orig. Le calmant, in Id., Nouvelles et textes pour rien, Minuit, Paris 1958).
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Jean-Luc Nancy, filosofo, professore emerito all’Université des Sciences humaines de Strasbourg. Ha insegnato all’Università di California (San Diego) ed è stato professore invitato alle università di Irvine, Berkeley e Berlino. Con Jacques Derrida, Philippe Lacoue-Labarthe e Sarah Kofman co-dirige la collezione «La philosophie en effet» alle edizioni Galilée di Parigi. Tra la sua vastissima opera, tradotta in tutto il mondo, si segnalano: La comunità inoperosa (Cronopio, Napoli 1992), Corpus (Cronopio, Napoli 1995), Hegel. L'inquietudine del negativo (Cronopio, Napoli 1998), Il senso del mondo (Lanfranchi, Milano 1997), L’esperienza della libertà (Einaudi, Torino 2000), Essere singolare plurale (Einaudi, Torino 2001), Cronache filosofiche (Nottetempo, Roma 2006), La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I (Cronopio, Napoli 2007), L’adorazione. Decostruzione del cristianesimo II (Cronopio, Napoli 2012), Banalità di Heidegger (Cronopio, Napoli 2016), Escluso l'ebreo in noi (Mimesis, Milano 2019), Un trop humain virus (Paris, Bayard, 2020).

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Alfonso Cariolato, filosofo. Tra i vari testi da lui curati e/o tradotti figurano opere di Jacques Derrida, Alexandre Kojève, Jean-Luc Nancy e Philippe Lacoue-Labarthe. Ha inoltre curato, con E. Fongaro, l’edizione critica di un testo di Carlo Michelstaedter (Parmenide ed Eraclito – Empedocle, Se, Milano, 2003). Ha pubblicato numerosi saggi in volumi collettanei, blog e in diverse riviste nazionali e internazionali, oltre ai seguenti libri: Il luogo del finito (Il Poligrafo, Padova 2003), I sensi del pensiero (Lanfranchi, Milano 2004), L’existence nue. Essai sur Kant (Les Éditions de la Transparence, Chatou 2009), Dare una voce. La filosofia e il brusio del mondo (Linea BN – La Carmelina Edizioni, Ferrara 2009),“Le geste de dieu”. Sur un lieu de l’Éthique de Spinoza, Marginalia de Jean-Luc Nancy (Les Éditions de la Transparence, Chatou 2011; traduzione giapponese di Fujii Chikayo e Matoba Toshimitsu, Kami no miburi - Supinoza Echika ni okeru ba ni tsuite, Suiseisha, Tokyo 2013).