Regista sui generis legato a un cinema profondamente anti-commerciale, Philippe Garrel si è distinto, soprattutto nel primo periodo del suo percorso artistico, per aver realizzato dei film caratterizzati da una forte sperimentazione audiovisiva, in cui il corpo e il gesto dell’attore assumono una nuova centralità e un nuovo significato. Nei suoi primi film, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, si può cogliere da un lato l’eredità della Nouvelle Vague, dall’altro l’influenza delle diverse esperienze del cinema underground statunitense, che hanno segnato in modo decisivo l’immaginario del cineasta francese.
Un cinema anti-spettacolare
Il percorso sia personale che artistico del regista francese Philippe Garrel è stato influenzato, soprattutto nei primi anni della sua carriera, dalla stagione culturale del New American Cinema statunitense, che insieme a quella della Nouvelle Vague ha profondamente segnato l’immaginario del cineasta francese, condizionando il suo approccio al cinema e il suo modo di concepire e costruire i film. Questi ultimi, soprattutto quelli realizzati tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, si contraddistinguono per una forte sperimentazione audiovisiva, per un approccio anti-psicologistico al personaggio, e per il ruolo centrale accordato al corpo e alla fisicità dell’attore.
In questo periodo, e in particolare in pellicole come Le Révélateur (Philippe Garrel, Francia,1968), La cicatrice intérieure (Philippe Garrel, Francia,1972), Les hautes solitudes (Philippe Garrel, Francia, 1974) o Le bleu des origines (Philippe Garrel, Francia,1979), Garrel realizza un cinema volutamente anti-spettacolare e svincolato da finalità puramente narrative, portando avanti una riflessione e un’indagine che sono al contempo esistenziali e formali. Per fare ciò, il regista sembra procedere innanzi tutto per sottrazione, depurando l’immagine filmica da ogni elemento puramente accessorio e lavorando in seguito sul corpo e sul gesto dei suoi attori e delle sue attrici, a cui viene affidata una nuova dimensione comunicativa, non più fondata necessariamente sulla centralità della parola, ma piuttosto su quella del gesto. Il linguaggio verbale è, semmai, svuotato spesso di senso, o diventa un elemento disturbatore tra i personaggi, che si rifugiano nel silenzio, nel non detto.
Pur essendo delle pellicole molto diverse tra loro, tutte ruotano intorno a dei “non-personaggi” che rappresentano, piuttosto, delle figure-simbolo: nel film Le Révélateur vi è, per esempio, la triade composta da un uomo, una donna e un bambino, ne La cicatrice intérieure una coppia formata da un uomo e una donna, mentre in entrambi i film Les hautes solitudes e Le bleu des origines vi sono tre figure femminili.
Figure archetipiche, quindi, e non personaggi nell’accezione tradizionale del termine, la cui espressività è affidata in primis al movimento del corpo nello spazio, ripreso attraverso lunghi piani-sequenza, o alla micro mimica del volto, filmato spesso con intensi primi piani.
Ciò che accomuna questi film è inoltre la mancanza di una vera e propria sceneggiatura e di dialoghi, che lasciano il posto alla sola potenza visiva delle immagini; si tratta, inoltre, di film totalmente muti, ad eccezione de La cicatrice intérieure, la cui colonna sonora – firmata da Nico1 che è anche l’interprete femminile del film – è presente solo in alcune sequenze.
In questi anni giovanili di sperimentazione attraverso il mezzo cinematografico Garrel appare interessato soprattutto alla funzione “rivelatrice” del cinema più che a quella illustrativa e narrativa: da ciò deriva il suo spiccato interesse per la costruzione visiva dell’inquadratura e per la composizione plastica dell’immagine filmica, più che per la scrittura e lo sviluppo di una storia.
L’assenza di una narrazione e di una struttura diegetica forti dirottano l’attenzione sugli elementi visuali del film, dall’utilizzo della luce e della fotografia alla stessa materialità della pellicola, esibita nelle sue imperfezioni, fino al montaggio spesso discontinuo, il cui ritmo sfida le regole del découpage classico e dilata il tempo della narrazione.
Procedere per sottrazione: il rapporto tra suono e immagine e il lavoro sul corpo
La complessa relazione tra immagine e suono riveste, nei film di questo primo periodo, un ruolo particolare: il regista sembra voler sfidare il rapporto tradizionalmente gerarchico tra la dimensione visuale e quella sonora del cinema, dove la prima tende a predominare ed è considerata centrale, addirittura indispensabile rispetto all’altra. Il sonoro è, infatti, assente, e diventa, semmai, un mezzo attraverso il quale è possibile esplorare e indagare le faglie del visibile, la cui funzione non è mai, quindi, quella di amplificare le emozioni, ma di suscitare interrogativi sull’orizzonte del visibile. In altri casi la dimensione sonora (della musica in particolare), sostituisce la comunicazione verbale e i dialoghi tra i personaggi. È il caso, questo, del film La cicatrice intérieure, dove la protagonista resta in silenzio o si esprime esclusivamente attraverso le proprie canzoni, che non appaiono però come inserti musicali all’interno della narrazione, ma piuttosto come momenti in cui la musica diventa parte strutturale del linguaggio del personaggio.
Anche quando è presente, l’elemento sonoro non illustra né rafforza quasi mai le immagini ma piuttosto sembra volerle quasi sostituire assumendo un valore autonomo, secondo quella logica tipicamente bressoniana secondo la quale «se l’occhio è conquistato, non bisogna dare nulla o quasi nulla all’orecchio»2. L’eredità del cinema di Robert Bresson è, del resto, raccolta pienamente da Garrel, che pur non applicando l’estremo rigore formale e stilistico dell’autore francese, sembra comunque condividerne sia la concezione anti-spettacolare del cinema, sia quella della recitazione non psicologistica. Quest’ultima si traduce spesso nel tentativo, da parte degli attori, di «svelare il movimento interiore attraverso quello esteriore»3, cercando di rompere ogni meccanismo di identificazione emotiva e psicologica con il personaggio.
Garrel, come Bresson, raccoglie e prosegue la linea del cinema europeo della modernità, per la quale recitare non significa né implica più tanto imitare i gesti e le attitudini di un personaggio, ma piuttosto mostrare davanti alla cinepresa l’opacità di un corpo che spesso gode di vita propria, è indipendente da quello del personaggio4. È proprio questa opacità ad essere al centro dell’attenzione di Garrel, il cui sguardo segue le pause e le movenze del corpo dell’attore e il suo rapporto con lo spazio, che può assumere o le caratteristiche di una realtà simbolica e archetipica (come avviene nei film Le Révélateur e Le lit de la vierge, in cui lo spazio è costellato di elementi convenzionalmente onirici), o quelle di ambienti naturali e paesaggi sconfinati che fanno da eco alla solitudine e all’erranza dei protagonisti.
In ogni caso, si tratta di uno spazio svincolato dall’economia dell’azione, che pare cioè rispondere a una funzione più contemplativa che narrativa, e che ospita le traiettorie non psicologiche ma puramente fisiche degli attori, i loro movimenti, la loro gestualità.
Ecco allora perché le figure del cinema di Garrel non hanno emblematicamente un nome ma vengono, come ha ben osservato Gilles Deleuze, “prima” del nome, essendo in realtà corpi e figure primordiali: l’uomo, la donna, il bambino, che esplorano una dimensione fisica della comunicazione.
L’assenza di musiche sia diegetiche che extra-diegetiche e di dialoghi parlati (ad eccezione del film La cicatrice intérieure), interpella lo spettatore costringendolo a soffermarsi al contempo sulla costruzione visiva dell’inquadratura, sulla pellicola nella sua materialità, e sulla fisicità degli attori, ed è il risultato di un lavoro più ampio di spoliazione ricercato da Garrel, che coinvolge e pervade ogni aspetto del film, dal suono all’utilizzo del colore o del bianco e nero, fino ai movimenti degli attori. Non si tratta, come si potrebbe invece pensare, della semplice denuncia dell’impossibilità di una comunicazione giusta, adeguata, quanto, piuttosto, della trasformazione del gesto in “parola”. I primi film realizzati dal cineasta sembrano esprimere proprio il desiderio di «rendere le parole al corpo»5, al gesto, alle movenze fisiche dell’attore, che viene così svincolato dall’interpretazione e dall’immedesimazione in un ruolo predefinito.
Il silenzio assume allora un valore centrale, apparendo non come una mancanza ma, al contrario, come un elemento primario dell’immagine: il suono, infatti, riesce, come la parola, a comunicare anche quando è assente, e anzi la sua assenza appare strutturale rispetto ai film.
Nell’opera Les hautes solitudes, in particolare, il silenzio totale sposta l’attenzione verso i volti delle protagoniste che emblematicamente pronunciano parole che non è possibile ascoltare, creando una dissociazione tra il movimento del loro labiale e il suono che ci aspetteremmo di sentire, e che è invece assente. Come è stato osservato, non si tratta di mimare le parole e i dialoghi di uno script, di una sceneggiatura che lo spettatore può solo immaginare, ma piuttosto di spostare l’attenzione visiva sul livello della pura gestualità, prima che essa rimandi ai codici e ai significati del linguaggio verbale6.
Deleuze7 parla, in riferimento ai registi europei eredi più o meno diretti della Nouvelle Vague, di un cinema che vuole restituire “credenza” al corpo, ovvero che intende riappropriarsi della dimensione fisica del cinema, più che psicologica o intellettuale; un corpo che può essere legato ai gesti quotidiani o, in alcuni casi, alla dimensione del rituale. Si tratta, in altri termini, di restituire una certa sacralità al corpo (inteso come canale privilegiato per accedere anche alla dimensione emotiva ed interiore), prima che arrivino le parole, e al di là di queste.
I primi lavori di Garrel declinano esattamente questo cinema dei corpi, in cui gesti banali e quotidiani diventano – isolati dal loro contesto e reiterati – gesti quasi rituali, definiti da Deleuze “cerimoniali”. Nel film Le Révélateur il lavoro sui corpi e sui gesti cerimoniali è particolarmente evidente, come ha messo in luce lo studioso Patrick Ffrench8:
The gestures are those of ritual and ceremony, but before they have attained the rigidity demanded by the ceremony, before it becomes a spectacle and their meanings are ordained by scripture or allegory.
They are everyday gestures, but gestures nevertheless liberated from habit and functionality. It is not only the fact that the film centers on the child, and that the child is the figure in relation to which the movements and postures of the man and woman are permuted, which suggests that the gesturality of the film be associated with infantile play.
Ciò che vediamo non sono le azioni funzionali al progredire della narrazione, ma i gesti, indipendenti dalla storia e dai personaggi portati sullo schermo. Questi ultimi non sono nemmeno personaggi del Mito, come si potrebbe invece immaginare facendo, per esempio, una lettura in chiave religiosa o psicoanalitica della triade presente nel film, ma sono figure al contempo individuali e universali, filmate dalla macchina da presa come puri corpi in movimento.
La riflessione sulla forma e sulla materia del film
In questo modo, trascurando almeno in parte la dimensione strettamente diegetica dei film, Garrel fa emergere soprattutto gli aspetti stilistico-formali delle sue opere, gli elementi che ne compongono il tessuto visivo, così centrali soprattutto nei primi anni del suo cinema, e sempre legati alla rappresentazione del corpo.
La scelta del bianco e nero e il lavoro sulla luce appaiono, in questo senso, essenziali: per il regista optare per il bianco e nero (nei citati Le Révélateur, Les hautes solitudes, ma anche nel film Le lit de la vierge) non rappresenta una scelta estetica tra tante: il bianco e nero è, piuttosto, un fattore produttivo e generativo in sé9. È da esso, infatti, che ha origine l’immagine filmica e che quindi si dispiega il visibile; il bianco e nero, inoltre, mette più facilmente in evidenza la materia e la grana della pellicola, le imperfezioni che ne ricordano la materialità e la finitezza.
Come ha ancora evidenziato Deleuze, l’immagine in bianco e nero è anche l’immagine neutra per eccellenza, la base a partire dalla quale si dispiega il processo di costituzione dei corpi, la loro genesi visiva, oggetto di particolare interesse e riflessione da parte di Garrel.
L’utilizzo del bianco e nero, insieme all’alternanza di sfondi monocromi e flash accecanti di luce che creano frequenti sovraesposizioni, rimanda a quella che il filosofo francese ha definito la «notte sperimentale»10 da cui ogni immagine ha emblematicamente origine e, al contempo, si esaurisce. Lì ha luogo la figurazione del corpo dell’attore, la cui opacità va di pari passo con l’opacità della pellicola, di cui il regista fa volutamente emergere, come si è detto, la consistenza materiale.
La luce e il bianco e nero diventano perciò elementi chiave con cui “scolpire” il corpo, metterlo in rilievo o al contrario nasconderlo, facendo emergere quella tensione continua tra figurazione e astrazione che caratterizza le opere più sperimentali di Garrel11.
Proprio come gli altri elementi del film, infatti, la luce non ha mai una funzione naturalistica, e riflette anzi spesso una realtà alterata o frammentaria, solo parzialmente visibile. L’uso frequente del primo e primissimo piano dei volti, insieme a una loro sovraesposizione, va proprio in questa direzione, in quanto ostacola una visione nitida o totale da parte dello spettatore.
Ciò che interessa Garrel, quindi, è riflettere in primis sulle proprietà e sulle funzioni espressive della luce e della fotografia, ma anche sulla difficoltà di riprodurre fedelmente il visibile e di catturarne il senso attraverso lo sguardo della macchina da presa.
Il corpus di film realizzati dal regista tra il finire degli anni Sessanta e gli anni Settanta risente anche, in maniera evidente, del clima culturale francese di quel periodo, oltre che dell’influenza di molte tendenze artistiche e cinematografiche sperimentali che si stavano sviluppando oltre oceano, con cui il regista era entrato anche direttamente in contatto. Parliamo, per esempio, dell’influenza del New American Cinema, ma soprattutto della collaborazione con gli artisti della Factory di Andy Warhol (in primis con Nico, con cui Garrel aveva un sodalizio artistico oltre che un legame sentimentale), le cui sperimentazioni cinematografiche hanno segnato in modo significativo l’immaginario visuale del regista francese.
Con le tendenze sperimentali e underground di quella stagione artistica e culturale Garrel condivide soprattutto l’idea di un cinema anti-commerciale che si pone quesiti innanzi tutto estetico-formali, ma anche il legame stretto e inscindibile tra pratiche artistiche e dimensione esistenziale e personale, che si intrecciano fino a confondersi.
In linea con questa concezione e con questo approccio al cinema, il testo filmico appare svincolato dai binari e dalle regole classiche della narrazione, ed emerge, anzi, la volontà di sperimentare modi nuovi di utilizzare il linguaggio audio-visuale, ma anche di concepire la sceneggiatura oltre che, come si è visto, di intendere la direzione e la recitazione degli attori.
Non si tratta, né per il cinema underground né per Garrel, di realizzare semplicemente dei film in opposizione al cinema narrativo e commerciale, ma di proporre e sviluppare un linguaggio e una visione nuovi, espressione dell’emancipazione del mezzo cinematografico dai vincoli della narrazione tradizionale12. Il risultato, nel caso di Garrel, è un cinema dei corpi in cui dominano situazioni “ottico-sonore pure”13 – per riprendere le celebri riflessioni di Deleuze sulla crisi dell’immagine-azione – che testimoniano anche quella frattura, tipica del cinema moderno auto-riflessivo, tra l’uomo e il mondo, quella crisi che si riflette sui film e sulle immagini che li compongono.
- Christa Päffgen, in arte Nico, cantante del gruppo dei Velvet Underground, ha collaborato con Garrel fino al 1978. ↩
- Robert Bresson, Notes sur le cinématographe [1975], trad. it. Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia 2003, p. 57. ↩
- Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro, Milano 2004, p. 44. ↩
- Cfr. Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo: l’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia 2020. ↩
- Gilles Deleuze, Cinéma 2. L’image-temps [1985], trad. it. Cinema Vol. 2, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 2006, p. 193. ↩
- Cfr. Patrick Ffrench, Belief in the Body: Philippe Garrel’s Le Révélateur and Deleuze, in «Paragraph», N. 2, 07 2008. ↩
- Cfr. Gilles Deleuze, Cinéma 2. L’image-temps, cit. ↩
- Ivi, p.167. ↩
- Cfr. Patrick Ffrench, Belief in the Body: Philippe Garrel’s Le Révélateur and Deleuze, cit. ↩
- Gilles Deleuze, Cinema Vol. 2. L’immagine-tempo, cit., p. 223. ↩
- Rosa Maria Salvatore, Traiettorie dello sguardo. Il cinema di Philippe Garrel, Il Poligrafo, Padova 2002, p. 66. ↩
- Cfr. Jonas Mekas, Movie Journal: The Rise of the New American Cinema, 1959-1971, Columbia University Press, New York 2016. ↩
- Cfr. Gilles Deleuze, Cinéma 1. L’image-mouvement [1983], trad. it. Cinema 1. L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1993. ↩