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This interview is an extract from the author's master's thesis, entitled A dreamy observation of reality. Current reconstruction and re-presentation of the performances and installations of Luigi Viola (1970-1980), tutored by Prof. Malvina Borgherini (IUAV University of Venice) and by PhD Lisa Parolo (independent researcher).
The dialogue and direct confrontation with the artist, who made himself very available, was central in retracing, at first, the training, the inspirations, and the general artistic experience. In this way, it was possible to fully understand, later, the birth and realization of the entire performative-installation production. A lot of information and many elements are reconstructed thanks to the memory of Viola, who becomes in effect an embodied archive.
*contribution to the discussion
Emanuele Dileone1: Fra le sue fonti di ispirazione lei cita Futuristi e Dadaisti…
Luigi Viola: C’è una naturale derivazione nel mio lavoro da altre esperienze artistiche storicizzate o in fieri, come lo erano quelle degli anni Sessanta. In certi ambiti di ricerca che mi hanno preceduto io trovo un punto di riferimento, dalle Avanguardie storiche, in particolare quella Futurista e Dadaista, fino a certe aree della sperimentazione degli anni Sessanta, come Fluxus o il Situazionismo, che ha una forte impronta politica e sociale. Tutta una serie di stimoli e attraversamenti che in qualche modo devono essere considerati come un antefatto.
Era normale che il desiderio dell’artista, specialmente in quegli anni in cui c’era ancora un’idea di avanguardia, fosse quello che il proprio lavoro potesse andare oltre ciò che c’era stato; c’era una forte volontà di innovazione, di rottura positiva per ricreare, per rifondare l’esperienza dell’arte. Le esperienze pregresse erano importanti ma, allo stesso tempo, sentivi la necessità di andare oltre e ti sentivi investito del compito di “andar oltre”.
Anche l’esperienza della Body art e della Performance art hanno nelle Avanguardie delle anticipazioni che, però, poi vengono ripensate radicalmente nel loro significato. E soprattutto l’esperienza della relazione tra l’arte e le nuove tecnologie, in particolare il video, ha significato il superamento dei linguaggi precedenti a favore di nuovi linguaggi in grado di portare a nuove consapevolezze. Per questo motivo, molti di noi [gli artisti del Cavallino, N.d.R.], pur provenendo da esperienze diverse, hanno trovato una comune identità di ricerca in quel momento. C’era chi veniva dalla parola, dalla pittura, dal teatro, dalla musica, trovando nella sperimentazione la possibilità di riformulare i propri linguaggi. Tutto ciò è durato per un decennio, negli anni Settanta; poi c’è stato un ritorno all’ordine dell’arte, per certi versi dovuto anche a ragioni economiche e di mercato, e allora si è affermato il superamento, la crisi e la conclusione dell’idea stessa di avanguardia. Questo però ha significato, allo stesso tempo, la liberazione, perché il fatto di non essere più dentro un pensiero in qualche modo settario – infatti l’avanguardia comporta un doversi posizionare e un rifiuto di altri percorsi ritenuti superati – ha prodotto sì negli anni Ottanta un ritorno all’ordine, ma riaprendo la possibilità di ripensare tutti i materiali e le forme dell’arte senza pregiudizi, in quanto nulla era più proibito.
Emanuele Dileone: Dal Minimalismo cosa sente di aver preso?
Luigi Viola: Del Minimalismo mi interessava la filosofia, il pensiero, la concettualità. Infatti, molto spesso Minimalismo e Arte concettuale sono terreni concomitanti in cui si opera una riduzione, una semplificazione della forma a vantaggio di una complessità dell’idea: qualcosa di complesso in sé che si manifesta nell’assolutezza e nell’apparente semplicità della forma. Sol LeWitt è considerato sia minimalista che concettuale.
Emanuele Dileone: I progetti di Sol LeWitt…
Luigi Viola: Lui [LeWitt, N.d.R.] amava produrre il progetto spesso in dialogo con l’architettura e considerando l’idea del tempo ancor più importante dello spazio, ma non necessariamente presumendo una sua realizzazione materiale, perché appunto era interessato al pensiero, all’idea, piuttosto che all’esito e all’oggetto in sé. Questa è una caratteristica di tutta l’arte di quegli anni: noi facevamo delle performance perché non ci interessava dare un prodotto, un oggetto, qualcosa da mettere in un salotto; ci interessava l’espressione di un’idea, come pure di un comportamento, di un’azione, quindi questi modi di operare erano coerenti con il principio della prevalenza dell’idea sulla produzione dell’oggetto. Ciò implicava anche un rifiuto della mercificazione dell’arte e di tutta una serie di questioni sottostanti, sicché, ad un certo punto, il mercato, che è in grado di inglobare tutto ed è in grado di vendere qualsiasi cosa, ha avuto un momento di sofferenza perché sembrava che le idee non potessero essere vendute, cosa che invece è poi successa (oggi, per paradosso, si vendono più le idee e non i prodotti). I musei hanno iniziato a collezionare e hanno dato uno status a questo tipo di lavori che nascevano molto spesso nella provvisorietà e nell’assenza di un riferimento a un oggetto, a una materialità.
Anche per me, in quegli anni, la poetica concettuale è stata determinante, assumendo un significato estetico e politico innovativo. I miei esordi sono stati, come artista concettuale, nei primissimi anni Settanta. I primi lavori che ho fatto in questa direzione sono quelli sul mio cognome, in cui si perde la specificazione del nome e la lettera assume una dimensione visiva, diventa una forma minimale che perde anche la connotazione alfabetica, giocando sul significato del cognome come colore. C’è un gioco concettuale che ha anche l’aspetto di una ricerca identitaria. Quindi la mia produzione degli anni Settanta è ascrivibile in gran parte all’ambito delle ricerche verbo-visive; c’è già lì, in premessa, questo orientamento.
Emanuele Dileone: In questa presenza del nome e della ricerca identitaria noto uno scarto, perché il Minimalismo e l’Arte concettuale sono entrambi forme d’arte senza una presenza di elementi personali ed emozionali, come poteva accadere invece nell’Espressionismo astratto.
Luigi Viola: Su questo hai ragione. La scelta è quella di un linguaggio che vorrebbe essere concettuale, minimalista, però nella mia natura è anche presente una dimensione più poetica che continua ad attraversare tutto il lavoro, creando una dialettica. Perché il colore? Certo, si tratta di colori minimali, sono i colori primari (rosso magenta, blu ciano e il giallo primario), però c’è questa vena poetica che attraversa tutto il lavoro e continua anche dopo, fino a diventare quasi prevalente.
A metà degli anni Settanta questa poetica torna fuori in pieno, con la realizzazione di opere che definisco neo-romantiche. Questo termine l’ho utilizzato la prima volta nel 1977 in occasione di una mostra alla Galleria del Cavallino, dove Neo-romanticismo era collegato alla dimensione di Venezia, all’immaginario fantastico che la città regala, e proponevo la necessità di recuperare tale dimensione fantastica, affermando che bisogna uscire dal dolore della razionalità. Tutta una serie di idee che poi si manifesteranno più largamente.
Emanuele Dileone: Questo suo interesse per la dimensione poetica deriva dai suoi studi?
Luigi Viola: Certamente, deriva dai miei studi letterari, dalla mia passione per la scrittura e per la poesia. In qualche modo io mi definisco sempre un poeta…
La mia formazione ha avuto un carattere prevalentemente letterario e artistico, ma fortemente legato in ogni caso alla parola e alla letteratura. La mia tesi sulla poesia concreta, visuale e fonetica, a Padova, è stata una proposta innovativa per l’epoca, laureandomi nel marzo del 1974. Di questa tesi era relatore un professore di Letteratura italiana contemporanea come Giorgio Pullini, ma la commissione di laurea era molto articolata, formata da filologi, italianisti, ma anche storici dell’arte – perché ho studiato Arte contemporanea con Umbro Apollonio, Arte medievale con Sergio Bettini, Arte moderna con Rodolfo Pallucchini ed Estetica con Dino Formaggio.
Ho discusso una tesi che non è stato facile far accettare perché appariva un po’ strana, mettendo insieme l’Istituto di Italianistica con quello di Storia dell’Arte – cosa inusuale, sia perché c’era una forte rigidità in quegli anni, sia perché riflettevo su esperienze che all’Università erano ancora non conosciute: si arrivava al Gruppo ‘63, a Nanni Balestrini… oltre non c’era alcuna conoscenza, tanto che all’epoca donai alla biblioteca universitaria una serie di materiali utilizzati per la tesi. Quindi anche la mia tesi era frutto di un mio specifico atteggiamento culturale, mettendo insieme l’esperienza artistica e quella letteraria e trovando nell’esperienza della poesia visiva, fonetica, che metteva in gioco anche l’oralità, la voce, il comportamento – cosa che i Futuristi peraltro avevano già fatto – una possibilità di esprimere quest’unione.
Devo dire che la tesi fu apprezzata e rappresentò anche un momento di innovazione per l’Università stessa, ancora molto conservatrice. Ricordo che Umbro Apollonio, persona splendida e illuminata, era felicissimo di questo tipo di cose, ma altri erano un po’ più in difficoltà. Lo stesso Pullini, che è stato il mio relatore, perché ho voluto che il relatore fosse un professore di letteratura, ha accettato per stima, avendo io sostenuto degli esami molto positivi con lui, e per apertura, essendo uno studioso dotato di grande curiosità.
Erano questi, dunque, gli anni della mia formazione, che è avvenuta mettendo assieme le esperienze letterarie, da una parte, e le esperienze dell’arte, che io stesso praticavo, dall’altra. Frequentavo l’Università e facevo le mostre a Milano, già mi muovevo come artista – abbastanza precocemente per l’epoca.
Oggi è diverso. I miei studenti già quando sono al terzo o quarto anno di Accademia cominciano ad essere attivi come artisti. C’è stato un momento in cui il sistema dell’arte ha guardato molto ai giovani, perché non si dava neanche il tempo di una formazione che venivano subito assorbiti dal sistema. Ai miei tempi, se avessi avuto vent’anni, avrebbero detto: “ne parliamo a 30 anni, adesso continua a lavorare, che stai lavorando bene; dopo, quando ne avrai 40, inizieremo a ragionare e vedere quello che hai prodotto”. Un giovane era un giovane in attesa di sviluppi. E poi invece ti ritrovavi a 40 anni e nel frattempo il mondo era cambiato!
Emanuele Dileone: Oltre ai Futuristi, da un punto di vista letterario, ha altre fonti di ispirazioni?
Luigi Viola: Nell’ambito della poesia italiana un poeta straordinario è Dino Campana, estremamente immaginifico. La poesia è anche un modo di costruire immagini e ci sono dei poeti che sono particolarmente immaginifici, suggeriscono ed evocano l’immagine attraverso la parola, la sonorità della parola. Ma fra le passioni della mia gioventù ce ne sono tanti: Giorgio Caproni, ad esempio, e un altro potrebbe essere Sandro Penna – poeti straordinari.
Ti racconto un aneddoto: quando frequentavo il liceo classico, a 16/17 anni, avevo saputo che a Roma, a una cert’ora del pomeriggio, Ungaretti aveva l’abitudine di fermarsi al Caffè Rosati, uno dei caffè di Piazza del Popolo – il Rosati da una parte, quello più storico, e il Canova dall’altra. Un giorno ho preso l’iniziativa, senza dirlo ai miei genitori, di prendere un treno e andare a Roma, anziché a scuola – il viaggio durava sei ore –, per essere lì, ad una certa ora, per vedere il Poeta per pochi minuti. Subivo sicuramente il fascino della figura dell’uomo-poeta, non solo della sua poesia. Il suo riuscire a vivere la poesia incarnandola, cosa che io ammiravo moltissimo, era un modello di esistenza per me.
Poi i grandi poeti francesi: Charles Baudelaire, uno dei miei idoli; ancora di più, per certi versi, Arthur Rimbaud, per la sua delirante capacità visiva e immaginifica; e naturalmente Apollinaire, Mallarmé… In seguito, ho iniziato ad approfondire tutte quelle esperienze ottocentesche e settecentesche che in qualche modo dalla poesia si collegavano alle immagini; ci sono stati dei personaggi, spesso eccentrici e curiosi, come Laurence Sterne, che anche nei secoli scorsi hanno introdotto elementi visivi nella scrittura. Essi sono stati dei precedenti delle Avanguardie storiche e ho iniziato a pensare che questa fosse una strada espressiva importante.
Emanuele Dileone: Il suo rapporto con la letteratura è sempre stato radicato nella poesia che crea immagini?
Luigi Viola: Con un pensiero e un sentire che è generatore di immagini. Anche, per esempio, Andrea Zanzotto, con il quale c’è stata una bellissima conoscenza – ho anche collaborato con lui in un paio di occasioni –, è uno straordinario creatore di immagini. Io l’ho sempre ritenuto fin dalle prime raccolte uno dei più importanti poeti italiani del secolo scorso. Sono tutti poeti che segretamente amano la pittura. Questa stessa connessione l’ho ritrovata anche con i filosofi. Nei primissimi anni Novanta, c’è stata una relazione con alcuni tra i più importanti filosofi italiani di quegli anni, perché pensavo – e l’ho pensato assieme ad altri amici artisti che hanno condiviso con me questo percorso – che in fondo i problemi della filosofia hanno molto a che vedere con la dimensione stessa dell’arte, e viceversa. Non a caso l’estetica, la dimensione visiva, dell’immagine e del bello, è una delle principali occupazioni dei filosofi. In quel caso è nata una collaborazione con filosofi, come Manlio Sgalambro, che collaborava strettamente con Franco Battiato, Carlo Sini, Massimo Donà e altri, e abbiamo pubblicato con Costa&Nolan un libro intitolato Insulae. L’arte dell’esilio, in cui si sosteneva che gli artisti sono delle insulae di pensiero tra loro collegate dal mare dell’arte. In questo libro troviamo una pattuglia di artisti, tra i quali si era sviluppata – specialmente in numerosi incontri milanesi – la riflessione da cui poi è nata l’esperienza stessa del libro e tutta una serie di mostre che proponevano un dialogo tra l’arte e la filosofia. Un’esperienza, questa, che venne mal interpretata dalla critica d’arte, perché sembrava che volessimo dichiarare una sorta di sconfessione della critica d’arte o un suo superamento a favore della filosofia. Un’obiezione che venne fatta fu quella che i filosofi non leggono l’opera nella sua dimensione storica e linguistica, come fanno i critici d’arte. Invece, negli anni successivi si è riproposto questo tema, perché effettivamente arte e filosofia hanno fra loro molte ragioni di confronto. Quindi possono essere molto feconde le esperienze che incrociano aree del linguaggio e forme del pensiero: l’arte è una forma del pensiero visivo, mentre la filosofia è una forma del pensiero teorico, qualcosa che ha comunque a che fare con il “vedere”. La critica d’arte è un’altra cosa, è un metalinguaggio, un linguaggio che costruisce la propria esistenza intervenendo su altri linguaggi, mentre la filosofia – come l’arte – è un linguaggio primario. Sicuramente la mia formazione è stata determinante, avendo frequentato il liceo classico, dove la letteratura, la filosofia, la storia dell’arte erano il pane quotidiano.
Emanuele Dileone: Ha nominato anche l’Azionismo viennese e il Dadaismo…
Luigi Viola: L’Azionismo viennese è stata un’esperienza importantissima agli inizi degli anni Sessanta. Gli azionisti sono quelli che introducono – o reintroducono – la dimensione corporea e performativa nell’arte, in questo caso con accentuazioni drammatiche, determinando una rappresentazione tragica del corpo, assunto come mondo. Un corpo martoriato, conflittuale. Indubbiamente l’innovazione che viene operata dal gruppo del Wiener Aktionismus è fondamentale per un giovane che cerca di cogliere tutte le spinte nuove del linguaggio per capirle e trasformarle a propria volta in qualcos’altro. L’idea non era quella di allinearsi con quello che veniva fatto, piuttosto considerare quello che era stato di recente fatto come un punto di partenza verso altro. Anche perché la conoscenza di queste esperienze non era così diffusa, bisognava cercarle, non c’era un sistema di informazione come quello cui siamo abituati oggi. Pure le novità che arrivavano dagli Stati Uniti erano spesso dei frammenti di informazioni e le cose che arrivavano le prendevi subito come un alimento, come qualcosa che ti serviva per capire, per andare avanti. Quindi il Wiener Aktionismusè stato sicuramente una di queste esperienze, ma non posso dire che il mio lavoro si leghi particolarmente al Wiener Aktionismus, o a una figura in particolare del Wiener Aktionismus. Il mio lavoro è molto diverso, esplora la dimensione del tragico e del sacro, ma non in quel modo. Lì c’era sotto anche il problema tedesco.
Emanuele Dileone: In Lei convivono una parte lirica, poetica, e una parte concettuale e, se non nello stesso modo, anche nel Wiener Aktionismus è presente sia una sorta di lirismo tragico che qualcosa che si riferisce all’Arte concettuale, nel costruire l’azione performativa.
Luigi Viola: Sì, lirismo tragico. Sicuramente c’è questa complessità e per questo ero attratto e seguivo con attenzione queste sperimentazioni che mi corrispondevano, anche se in modo diverso.
Ho incontrato Hermann Nitsch nel 1977 a Bologna, entrambi siamo stati invitati da Renato Barilli per la Settimana Internazionale della Performance. Io feci la mia performance degli scacchi, con venature antropofaghe, basata sul dialogo tra l’Amor sacro e l’Amor profano, in cui io e Pico della Mirandola discutevamo dell’amore; Nitsch, nella chiesa di Santa Lucia, fece una delle sue operazioni rituali. Un altro artista per me molto importante è stato Arnulf Rainer, artista complesso che lavorava sul corpo, sullo sfinimento del corpo, un tema che è stato trattato da altri artisti, come Marina Abramović. Nel mio video A 5’ writing la scrittura è accompagnata dal movimento, dal battito delle mani: le mani battono prima lentamente, simulando dei passi, poi quasi parossisticamente, simulando una corsa, fino allo sfinimento possiamo dire, trovando pace nel ritmo della scrittura2. Diversamente dalla performance di Marina Abramović che si scontra con Ulay, dove c’è proprio la ricerca del limite di resistenza fisica, nel mio lavoro c’è un passaggio sottile dallo sforzo e dall’impeto fisico alla distensione, al liberatorio ticchettio della macchina da scrivere.
Non è il tema centrale, però abbiamo una progressione di movimenti che vanno verso un’accensione sempre maggiore, fino a sfinire, a placarsi, e lì c’è lo sfinimento, quando si raggiunge una sorta di apice che per me è sempre un apice della scrittura. Quindi si possono trovare delle somiglianze, delle linee che si intrecciano.
Emanuele Dileone: E invece Fluxus?
Luigi Viola: Sono tutte esperienze più o meno contemporanee, sono tutte varianti di una medesima condizione umana, quella di un secolo che ha vissuto la tragedia delle dittature, di due enormi traumi bellici e del conflitto di classe. Cosa fa l’arte se non interpretare una condizione, uno stato? Non intendo dire che l’arte sia specchio, semplicemente, della società; può essere anche altro, nella sua autonomia, a volte si fa specchio, a volte si fa utopia del futuro e momento di trasformazione. C’è questa complessità di relazioni tra arte e società umana: non esiste un’arte fuori dalla società umana. L’arte è anche un’esperienza dell’uomo e non può che rapportarsi alle condizioni del proprio tempo. Dunque, tutte le esperienze sono state ciò che poteva derivare da quel tempo. Fluxus è l’espressione di un momento anarchico, antisistemico, anticommerciale dell’arte, l’esempio di una mescolanza dei linguaggi che segna la voglia di un’arte libera e provocatoria, fondata sul principio di indeterminatezza del processo creativo.
Dovresti provare a immaginare cosa sono stati gli anni del dopoguerra. Perché eravamo ancora vicini alla fine della Seconda guerra mondiale, il più grande conflitto che l’umanità abbia conosciuto. Anche se la Grande Guerra, per certi aspetti, è stata crudele per il modo di combattere, per la micidialità delle nuove armi chimiche, poi c’è stato il progetto di sterminio di una parte dell’umanità che ha connotato l’esito finale di quel periodo – non soltanto gli ebrei, ma anche gli zingari, gli omosessuali, coloro che avevano problemi fisici, gli slavi, i russi, i comunisti, tutti quelli che rappresentavano il nemico.
Uscivamo da questo, uscivamo da una condizione in cui, secondo Theodor W. Adorno, non era più concessa la possibilità di fare poesia, di scrivere un solo verso, e questo valeva anche per l’arte: cosa potevi dire, cosa potevi rappresentare dopo questo evento tragico?
L’arte tenta di ricostituirsi a partire da questa consapevolezza, da questa condizione, e c’è tutto un dibattito, nel secondo dopoguerra, sul senso dell’arte, sulle strade che l’arte deve intraprendere e c’è tutta una nuova spinta a ricostruire le possibilità del linguaggio, un linguaggio che era stato azzerato, cancellato.
Emanuele Dileone: Dopo il suo periodo “milanese”, come avviene il suo riavvicinamento a Venezia?
Luigi Viola: Nei primi anni Settanta ero un giovane universitario ventenne, con una formazione classica alle spalle, ma già determinato a percorrere la via dell’arte, consapevole che quello era il momento di fare scelte decisive per il futuro.
E le determinazioni furono fondamentalmente due. 1) Iscriversi alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova, piuttosto che all’Accademia di Belle Arti, considerando quanto potesse essere essenziale per la mia pratica dell’arte anzitutto l’approfondimento teorico e storico, e come le competenze relative alla conoscenza dei materiali e dei mezzi espressivi fossero in qualche modo conseguenti e subordinate a un primato concettuale. Eravamo del resto in un momento di sviluppo dei linguaggi artistici che privilegiava il concetto e l’idea sulla fattualità, l’arte come pensiero – Art as Idea as Idea, per dirla con Kosuth –, così come l’uso di inediti materiali e tecnologie rispetto alla tradizione della pittura. In tutta la società le esigenze di cambiamento si avvertivano con grande forza, c’era la speranza di radicali cambiamenti ai quali l’arte aveva il dovere di offrire il proprio contributo. 2) Venezia, pur essendo stata attraversata dalle poetiche del dopoguerra, dall’Informale fino alle Neo-avanguardie degli anni Sessanta, che avevano introdotto importanti innovazioni nei linguaggi – specialmente come conseguenza dell’internazionalizzazione di esperienze come quelle del Minimalismo e dell’Arte programmata e cinetica -, mi appariva tuttavia – con qualche ingenuità e qualche eccesso – ancora troppo radicata in una tradizione del colore e della pittura. Questo dato emergeva anche nel modo in cui gli artisti veneziani avevano accolto la poetica dello Spazialismo, differenziandosi dai milanesi, che apparivano più incisivi e radicali, mentre a mio parere bisognava produrre un urto definitivo con i confini disciplinari in modo che si costituisse una sorta di nuova episteme, una nuova consapevolezza linguistica, una razionalità rigorosa che facesse giustizia degli stanchi romanticismi, trovando nella filosofia, più ancora che nella scienza, il proprio fondamento.
Milano era ancora la città ideale da questo punto di vista, culturalmente laica, aperta sul mondo, internazionale: ogni esperienza veniva accolta con interesse e fiducia, il clima migliore per lavorare. E così – grazie ad un contatto iniziale con un artista milanese incontrato a Padova, una decina d’anni più anziano di me e reduce allora dall’aver mostrato i suoi lavori al Festival di Spoleto, considerato da tutti un privilegio – sono entrato in contatto con Milano, con una certa realtà milanese: quella che ruotava intorno alla vita della nuovissima Galleria Pilota di Iro Novak e Patrizia Centofanti in Via Caminadella, una tranquilla laterale di Via Correnti, nata con l’idea, implicita nel nome, di ospitare proposte di avanguardia, dove sono transitati artisti allora giovani come Lucia Pescador, Giuliano Giuman, Filippo Avalle, Elisabeth Sherfigg, Santo Leonardo, Alessandro Algardi, Mauro Giuntini, e meno giovani, come Betty Danon, LeoNilde Carabba, Sergio Dangelo, Carlo Nangeroni, Antonio Dias.
Era il 1972, e la mia prima opera esposta fu una linea retta nera di qualche millimetro di spessore che attraversava nel mezzo un foglio bianco, sopra la quale scorreva in parallelo una scrittura poetica che iniziava con le parole: «questa linea che esce dalla mia testa…». Seguì, nel 1973, la mostra personale, che consisteva nell’esposizione di una serie di carte sulle quali avevo trascritto dei proverbi popolari, dopo averli enunciati e aver preteso dal notaio l’attestazione ufficiale delle mie dichiarazioni, con tanto di timbri e protocolli della performance avvenuta in sua presenza. L’inaugurazione vide la realizzazione della performance In quibus membris corporis humani sacra religio3, che fu documentata con un film 16mm realizzato dal Gruppo Parodistico, un gruppo di appassionati di ripresa cinematografica che furono lasciati da me liberi di realizzare il montaggio delle riprese.
La collaborazione con la Galleria Pilota continuò per un lustro, concretizzandosi in particolare nella successiva personale del 1975, con lavori fotografici ricavati dai miei primi due video veneziani realizzati tra l’autunno del 1974 e il gennaio 1975; nella partecipazione alla mostra Avanguardia Avanguardia del 1976, curata da Janus a Torino per l’Assessorato alla Cultura, con la proposta di alcuni artisti della Galleria; e in quella del 1977 alla Galleria Pilota stessa, Sei artisti d’avanguardia alla Galleria Pilota. Nel frattempo, avevo iniziato già a guardare a Venezia, dove avevo cominciato a vivere alcune esperienze positive.
La decisione di “tornare” a Venezia fu presa infatti dopo che le opere da me presentate alla Collettiva Annuale della Fondazione Bevilacqua La Masa furono accolte dalla giuria ed esposte. Non me l’aspettavo, e sono certo che ciò si spieghi con la presenza illuminata nella commissione giudicatrice di Romano Perusini, artista che operava con la Galleria del Cavallino e docente all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Questo mi rincuorò e mi diede la spinta per ripensare a Venezia, della quale in fondo ero sempre stato profondamente innamorato. Mi sentii gratificato e decisi di vivere delle relazioni più stabili con la città. Nello stesso anno 1975, la mia intera produzione di Corpi di Poesia4 e Autoritratti attraverso… creati in quel periodo furono acquistati in blocco da due galleristi/mercanti veneziani e fui invitato alla mostra Operare, tendenze della ricerca artistica nel Veneto, alla Fondazione Bevilacqua La Masa, con Claudio Ambrosini tra gli altri, che ebbe luogo dal 20 dicembre 1975 al 5 gennaio 1976. Inoltre, su iniziativa della Galleria Acquario di Mestre, esposi in una personale presso lo Studio Pozzan di Vicenza.
Tutto questo mi faceva ben sperare nella città e nella sua capacità di accogliere l’arte d’avanguardia. L’anno successivo iniziò la collaborazione con Paolo Cardazzo e ci fu l’esperienza di Motovun. L’assegnazione dello studio a Palazzo Carminati seguì di poco, nel 1978-79.
Emanuele Dileone: Lei entra prima in contatto con Palazzo Carminati e con la Fondazione Bevilacqua La Masa. È stata questa la sua prima esperienza veneziana?
Luigi Viola: Certamente la Fondazione ha avuto un ruolo decisivo nella mia crescita e può essere considerata la prima importante esperienza di contatto con la realtà artistica veneziana e le sue istituzioni. Prima viene la Collettiva Annuale, poi la mostra Operare, altre esperienze ancora tra Milano e Venezia e soltanto qualche anno dopo Palazzo Carminati, a testimoniare un’ormai consolidata presenza a Venezia.
Emanuele Dileone: Invece con il Cavallino com’è entrato in contatto? E dell’esperienza a Motovun del 1976 cosa può dire?
Luigi Viola: Il primo incontro con Paolo Cardazzo è avvenuto durante la 59a Collettiva della Bevilacqua. Paolo l’ha visitata durante l’inaugurazione, si è soffermato a chiedermi qualcosa di quei lavori che l’avevano interessato e mi disse di andare a trovarlo in Galleria. Era maggio. Così feci, prima dell’estate, e poi ci rivedemmo in autunno. Ci fu dunque un incontro diretto e assolutamente spontaneo. Nell’arco di qualche mese si affermò un rapporto positivo che mi portò l’anno successivo a Motovun e nel marzo del 1977 alla mia prima personale al Cavallino. Nel 1976 ci furono ancora due mie personali veneziane alla Galleria Il Traghetto e alla Galleria Fidesarte, mentre dal 1977, per quanto riguarda Venezia, ho tenuto mostre personali esclusivamente alla Galleria del Cavallino. Nello stesso anno oltre che al Cavallino esposi in personali anche alla Galleria Tommaseo di Trieste e alla Galleria Duemila di Bologna. Nello stesso anno fui anche invitato dalla Fondazione Bevilacqua alla mostra 11 Artistes venitiens. Tendences et recherches allaMaison des Beaux-Arts di Parigi.
Sull’esperienza di Motovun, sono già state dette molte cose. Dal mio punto di vista rappresenta un momento molto importante per varie ragioni, di conoscenza e scambio con i migliori giovani artisti iugoslavi della nostra generazione, che hanno trovato poi ampio riconoscimento internazionale, da Mladen Stilinović a Sanja Iveković a Goran Trbuljak a Dalibor Martinis, supportati da valide politiche culturali mancanti del tutto in Italia. Si aggiungeva a questi la presenza di altri artisti che avevano casa a Motovun, come Miro Šutej, o nella vicina Labin, come Zdravko Milić. Conobbi quell’anno anche Marijan Susovski, il direttore della Galleria d’arte Contemporanea di Zagabria, che accompagnava gli artisti croati, un grande direttore. Venne a trovarci quell’estate anche Marina Abramović, con la quale mi sarei ritrovato l’anno successivo a Bologna durante la I Settimana Internazionale della Performance, organizzata alla GAM di Bologna da Renato Barilli, con la collaborazione di Roberto Daolio e Francesca Alinovi, la quale scrisse in catalogo un testo per la mia performance.
Inoltre, Motovun favorì la produzione di un certo numero di opere video che nascevano tutte, nel mio caso, da azioni performative. Il tema scelto, quello dell’identità, era sicuramente molto sentito e corrispondeva perfettamente alla mia poetica, essendo in continuità con i lavori di scrittura visuale e concettuali degli anni precedenti. Si è trattato di una specie di temporanea, piccola ma vivace comune artistica, una libera aggregazione al cui interno si sono sviluppati percorsi assolutamente personali, ma anche momenti di reciproca collaborazione, come è stato nel caso del video Who is Luigi Viola5.
Emanuele Dileone: Vorrei approfondire la questione della Narrative art. Trovo che Lei possa essere annoverato tra gli esponenti italiani di questa tendenza. Le sue sperimentazioni fotografiche iniziali, nelle quali unisce l’immagine alla parola, sono vicine a quelle di Duane Michals. Ha avuto modo di conoscere le opere di Franco Vaccari, che può essere considerato un esponente italiano della Narrative art?
Luigi Viola: Indubbiamente, guardando a posteriori al mio lavoro di quegli anni è giusto parlare di Narrative art, una tendenza di cui si è detto poco in Italia – forse perché ha prevalso nel discorso critico la categoria di poesia visiva o di scrittura visuale o di arte concettuale, esperienze che hanno avuto una maggiore notorietà e che anch’io ho praticato. La Narrative art ha un proprio specifico, che è anche quello che si ritrova nei miei lavori di quegli anni, e che si identifica appunto nella particolare relazione narrativa di immagini, nella sequenza fotografica o in sequenze di parola e immagine; all’incrocio tra vita quotidiana, memoria e tempo, temi da sempre presenti nel mio lavoro.
Il termine è stato adottato intorno alla metà degli anni Settanta. Nell’autunno del 1974 a Bruxelles ci fu una mostra con opere di David Askevold, Didier Bay, Bill Beckley, Robert Cumming, Peter Hutchinson, Jean Le Gac, Roger Welch. Nel catalogo dell’esposizione James Collins titolava la sua prefazione proprio Narrative art. Credo sia stata la prima mostra di questo genere, ma in quel momento non potevo possedere informazioni di tale natura. C’era solo qualcosa che sentivo dentro di me e che non aveva ancora una definizione teorica o un’esplicitazione evidente. Devo anche dire, non per una sorta di presunzione o di puntiglio, che non trovo specifici antecedenti in Italia negli stessi anni. Alcune opere di Franco Vaccari, di oltre una generazione più avanti di me, potrebbero essere le più vicine, ma la sua è una connotazione ancora tipicamente concettuale, mentre nei miei lavori – a ben guardare – si cominciava già a mettere in discussione apertamente quella dimensione razionale a favore di una concettualità più calda e poeticamente libera, che ricomprendeva il colore, elaborando via via le caratteristiche di un “Nuovo Romanticismo”: una visione trasognata, di pieno recupero dell’immaginario poetico, come avrei teorizzato nel catalogo della mostra del Cavallino nel 1980 e nei lavori del ciclo di Norwid, che hanno fatto seguito, tra il 1979-83, a quelli del ciclo di Alice (1978-80).
Con l’opera di Franco Vaccari ero entrato in contatto prima del 1972 e della sua famosa Esposizione in tempo reale n. 4 alla 36ª Biennale di Venezia, grazie ad alcune opere di poesia visiva come, ad esempio, Giuro di aver visto questo cane girare per strada con tutta l’aria di un’autentica poesia [del 1967, N.d.R.], giuntami nel 1971 probabilmente – anche se non ne sono sicuro – attraverso la rivista Tèchne, del gruppo fiorentino dei poeti visivi capeggiati da Eugenio Miccini e Luciano Ori.
Con i poeti visivi del gruppo di Firenze o anche con Lotta poetica di Sarenco a Brescia ho avuto rapporti e ci siamo talvolta incrociati, come nella mia performance poetica a Trento, Arte come impegno sociale, al Palazzo della Regione nel 1979, dove oltre a Franco Verdi ha partecipato anche Eugenio Miccini. Ho avuto rapporti di amicizia e collaborazione anche con due grandi figure come Ugo Carrega e Adriano Spatola.
La mia stessa tesi di laurea, nell’anno accademico 1972-73 – come ho già detto –, è stata dedicata alle esperienze di poesia concreta, visiva e fonetica, e anche in quella sede ho ricordato il lavoro di Franco Vaccari. Curiosamente la sua prima personale si tenne proprio a Mestre, alla Galleria L’Elefante gestita da Cesare Misserotti, ora a Treviso. Può essere che l’abbia vista, avevo 16-17 anni nel 1966. È probabile che sia così, perché seguivo l’attività della Galleria, che faceva un lavoro di alto profilo, ma non ho ricordi attivi. Nel 1972 avevo invece 23 anni e ricordo benissimo la sua installazione in Biennale. Lui ne aveva 13 più di me, abbastanza di più da essere decisivi in quegli anni. Io sentivo la necessità di abbeverarmi a esperienze come la sua e allo stesso tempo di dimenticarne la memoria, di fare altro. Da lui ho derivato molte suggestioni, e certamente l’importanza del concetto di tempo reale, caratteristica tipica del video. In comune abbiamo la passione per la poesia, l’uso concettuale della fotografia, l’interesse per le tecnologie, l’idea di continua sperimentazione e la riflessione teorica sui mezzi espressivi della contemporaneità. Vaccari veniva visto comunque come artista concettuale, fotografo e poeta visivo. Non si parlava certo di Narrative art. Nel 1978 Vaccari teorizzava:
La differenza fra gli happening, le performance e le “esposizioni in tempo reale” è una differenza di struttura. Mentre infatti le prime si sviluppano linearmente e nelle varie fasi ubbidiscono a precisi programmi predeterminati, le esposizioni in tempo reale hanno come elemento caratterizzante la possibilità di retroazione e cioè del feed-back.
Il linguaggio utilizzato ha una forte accezione scientifica – Vaccari è un fisico – e mantiene il rigore assertivo dei primi lavori. Fondamentale e innovativa in queste opere di Vaccari è soprattutto la concezione dello spazio come spazio della relazione, come succede in alcune mie performance tra il 1977 e il 1979 (da Bologna a Muggia a Varsavia). In comune c’è l’uso dell’elemento tecnologico per raccontare l’individualità e un’attenzione per lo spazio sociale, rintracciabile in alcune mie performance degli anni Settanta. È l’artista italiano degli anni Settanta al quale mi sono sentito più vicino ed è stato un grande piacere per me che nel 2012 ci sia stata in Scozia una mostra che ha accostato il mio lavoro a quello di Vaccari6.
La stessa Sophie Calle, considerata una delle protagoniste maggiori della Narrative art, ha iniziato i Journeaux intimes alla fine degli anni Settanta, mentre è dei primi anni Ottanta la serie Filatures parisiennes (1981). Per lei l’ispirazione iniziale è venuta – secondo le sue dichiarazioni – da un’opera di Duane Michals vista nello studio medico del padre. Duane Michals era un artista già affermato alla fine degli anni Sessanta, soprattutto come fotografo professionista, ma solo più tardi ha iniziato a scrivere dei testi sul margine delle sue fotografie, accentuando in tal modo l’aspetto personale, intimistico della relazione tra parola e immagine – This Photograph is my Proof, 1967-1974; The Unfortunate Man, 1976; The Ideal City, 1980. Il suo lavoro in Europa arriva nel 1977, con Documenta 6.
Come si vede dalle date siamo più o meno contestuali. Io però non lo conoscevo ancora, come era ovvio, quando nel 1975-76 ho iniziato a relazionare fotografia intimistica e parola, oppure colore intimistico e parola, come nei Corpi di Poesia del 1975. Sophie Calle stessa conosce il suo lavoro forse solo nel 1978-79, a Parigi. Si deve considerare che in quegli anni non esisteva la comunicazione globale cui siamo abituati ora. I tempi dell’informazione erano tempi lunghi, le cose si venivano a sapere dalle riviste internazionali, ma passavano mesi per entrare in contatto con una informazione che poteva essere preziosa. A Venezia la Biennale era un’ottima occasione di aggiornamento, ma era, appunto, biennale e nel 1977 Kassel non era facilmente raggiungibile per un giovane squattrinato.
Emanuele Dileone: Le due opere Cancellazioni7 e Diario pubblico e segreto (1975)8 le ho ricostruite come azioni performative urbane: quale ruolo assume il video?
Luigi Viola: Queste due opere nascono contemporaneamente come delle azioni urbane ma anche come dei video, perché è presente, fin dall’inizio, la volontà di realizzare un video. Quindi, si cerca di mettere assieme la pratica performativa e quella videografica. Sapendo che dovrai realizzare un video, alcune azioni della performance dipenderanno dalla situazione di star svolgendo una performance per e con il video. Si tratta a tutti gli effetti sia di un video che di una performance. Il video, infatti, è tutto performativo. Inoltre, all’epoca non esistevano ancora mezzi per il montaggio, che era ridotto al minimo all’interno dei due video ed era fatto in modo primitivo. Questo è appunto la cosa interessante di queste opere: sono opere che nascono come performance, con un’attenzione forte per la città e la dimensione urbana, ma già era presente un forte interesse per il video.
Emanuele Dileone: Il video possiede infatti la stessa valenza ed autonomia artistica rispetto all’azione performativa ma, allo stesso tempo, il video può essere utilizzato come documentazione visiva.
Luigi Viola: In generale, nella mia produzione artistica, il video non nasce mai come documentazione, ma sempre come un’opera autonoma. L’aspetto di documentazione è comunque presente, perché attraverso il video avviene una registrazione di un’azione live. I primi lavori hanno questo tratto misto di opera-video/documentazione.
Emanuele Dileone: Infatti, dal video nascono successivamente una serie di opere nelle quali combina i provini su carta tratti dagli still dei video [Cancellazioni e Diario pubblico e segreto, N.d.R.] con materiali manipolati [si fa riferimento alle opere Visual poems, N.d.R.]. È una situazione in cui da un’idea, un concetto, viene realizzata un’azione performativa urbana, un video che possiede una propria indipendenza artistica e alcune opere “visivo-dimensionali”.
Luigi Viola: Ognuna di queste opere ha una propria autonomia, ma allo stesso tempo sono tra loro correlate. Si tratta anche di intermedialità, un concetto espresso attraverso diversi media. Inoltre, c’è l’idea secondo la quale un concetto non si esaurisce in una situazione, ma si trasforma ed è sempre nuovo e differente.
Emanuele Dileone: Nel caso di una futura riproposizione di Cancellazioni e Diario pubblico segreto, queste due performance dovrebbero essere rimesse-in-azione solamente a Venezia? Oppure si potrebbe pensare ad un’altra città?
Luigi Viola: Riproponendole in un’altra città sicuramente cambierebbe il contesto e qualche elemento dell’immaginario, però possono essere eseguite in qualsiasi città, certamente. Nelle due opere è presente un’idea di città che non è legata particolarmente a Venezia. Nel video risulta essere Venezia per tutta una serie di ragioni, per esempio è la mia città, nella quale abito da sempre. Ma potrebbe trattarsi di qualsiasi città del mondo. Ed è chiaro che si otterrebbero dei risultati anche diversi.
Emanuele Dileone: E i luoghi e gli elementi sui quali Lei disegna il simbolo della falce e martello sono vincolanti?
Luigi Viola: Lo stesso discorso che facciamo per la prima performance vale anche per la seconda. Può essere riproposta in qualsiasi luogo. Se nella prima ritroviamo i luoghi noti della città, nella seconda si mostra una città nascosta, anonima, marginale. Se io fossi, per esempio, a Milano troverei dei luoghi più segreti per riproporre questa seconda performance. Vale, quindi, un meccanismo concettuale.
Emanuele Dileone: Per Voyage9 voglio porre la stessa domanda delle due opere precedenti. Nel caso di una riproposizione della performance/installazione in una città diversa da quella di Torino, il viaggio avverrebbe da Venezia fino alla nuova città?
Luigi Viola: Certamente. Potrebbe essere qualsiasi città e, addirittura, potrebbe essere qualsiasi mezzo. Non è detto che debba essere per forza il treno, che è un mezzo di trasporto “romantico” e si adatta bene alla mia idea, per via del finestrino attraverso il quale osservare la realtà. Il finestrino può essere anche quello di un aereo, di un pullman o anche di un’automobile.
Emanuele Dileone: Per quanto riguarda Temporidentitàs10, sono presenti due varianti di diversa durata: una di dieci minuti e una seconda di venti. Da un’analisi di entrambi i video ho riscontrato che quello più lungo è come se fosse formato da due scene. Il video è titolato, all’inizio e alla fine, e inizia con l’inquadratura sul metronomo; poi, per dieci minuti, viene ripresa l’azione dei tre performer. Ad un certo punto, l’immagini va in nero e ricomincia di nuovo con il metronomo e l’azione per altri dieci minuti.
Luigi Viola: No, abbiamo fatto un’unica ripresa della performance. Di questo ne sono sicuro. Abbiamo dovuto allestire gli spazi della galleria per eseguire questa performance. Ricordo che abbiamo svolto le riprese in una sola giornata, non in due diverse.
Emanuele Dileone: Temporidentitàs è stata definita come video-performance perché viene utilizzata una strumentazione video. Lei registra il flusso delle tre videocamere su un nastro magnetico, per sintetizzare questa moltiplicazione dell’immagine e dell’identità. Per una riproposizione live di questa performance, ho pensato a una situazione simile a quella di Diamonologo interfonico: allestita la strumentazione, l’azione dei tre performer verrebbe eseguita in uno spazio, mentre lo spettatore vi assisterebbe da un altro luogo, attraverso un monitor, nel quale si realizzerebbe il mixaggio live delle tre videocamere. Ho riflettuto su questo partendo dal fatto che la compresenza di azione e spettatore farebbe sì che i fruitori non abbiano la stessa sensazione del video.
Luigi Viola: Certo. Quindi la riproposizione sarebbe costituita da un elemento performativo e da uno video.
Emanuele Dileone: Sì. Non c’è una compresenza spaziale ma temporale tra spettatore e performer. Passando a Diamonologo interfonico11, nel catalogo della manifestazione viene riportato che Lei agiva da solo all’interno della Sala Principale della Galleria d’Arte Moderna di Bologna e, invece, lo spettatore assisteva da questo black box osservando le immagini trasmesse live su quattro monitor. Lei compie questo dialogo con Pico della Mirandola, la cui voce è registrata su nastro magnetico. Ma quello che Lei dice/risponde è improvvisato?
Luigi Viola: No, dovrebbero esserci stati due nastri magnetici. Uno, Pico della Mirandola, sosteneva le tesi dell’Amor sacro e l’altro, cioè io, quelle dell’Amor profano. Queste due voci sono state registrate su due nastri magnetici diversi. Mentre io compio l’azione della partita a scacchi da solo, le voci si alternano nella sala.
Emanuele Dileone: Quindi Lei non parlava dal vivo in quel momento.
Luigi Viola: No, io agivo solamente sulla scacchiera. E il dialogo avveniva tra le due voci registrate che si ascoltano all’interno di questa grande sala della galleria.
Emanuele Dileone: In che modo agiva sulla scacchiera?
Luigi Viola: Muovevo gli scacchi proponendo qualche mossa del gioco, ma senza che nulla fosse prestabilito. L’intento di questa azione era mangiare l’altro per sottolineare l’aspetto dominatorio e possessivo ell’amore. Infatti, io sostenevo l’amore profano che ha in sé degli elementi di possessione.
Emanuele Dileone: Nel testo in catalogo che fa riferimento alla sua performance, scritto da Francesca Alinovi, sembra che Lei dialoghi, in un primo momento, con Pico della Mirandola e, successivamente, con i poeti Girolamo Benivieni e Guido Cavalcanti, il primo sostenendo l’Amor sacro e il secondo quello profano.
Luigi Viola: La mia memoria è debole. Io ricordo solo Pico.
Emanuele Dileone: I tre personaggi sono correlati tra loro, perché Pico della Mirandola scrive un commento sul componimento poetico di Benivieni ed indica come precedente a tutte le canzoni di questa tipologia quella di Cavalcanti. Però bisognerebbe risentire i nastri, ripulirli e digitalizzarli.
Luigi Viola: Certamente. Può essere che, in conclusione del dialogo filosofico, io abbia inserito altre voci, più specificamente poetiche rispetto al taglio filosofico di Pico. Ma sinceramente non ricordo.
Emanuele Dileone: Invece, dalle fotografie presenti nel catalogo, si può supporre la presenza di tre persone addette alla trasmissione delle immagini ai quattro monitor: due operavano le videocamere e, probabilmente, un mixer video per gestire lo switch tra i due flussi d’immagine. Molto probabilmente, uno dei due operatori era Michele Sambin. Dalle fotografie scattate dall’artista/fotografo Mario Carbone durante la performance, si nota che la figura dietro ad una delle due videocamere – l’altra purtroppo non si vede – è vestita in maniera molto simile a Sambin durante la performance Autoritratto per quattro camere, opera realizzata durante la Settimana della Performance.
Luigi Viola: Assolutamente probabile che sia andata così. Ci si aiutava volentieri quando serviva.
Emanuele Dileone: Che istruzioni aveva dato agli operatori?
Luigi Viola: Di riprendere, in maniera libera, le mie azioni, facendo attenzione ai movimenti dei gesti sulla scacchiera.
Emanuele Dileone: Proseguiamo con Natura della scrittura, azione performativa eseguita nel 1977 a Trento. Lei era stato invitato a prendere parte al convegno Arte come impegno sociale. Ma a tutti gli artisti/poeti invitati è stato chiesto di presentare un momento performativo?
Luigi Viola: Non ricordo di preciso, però, a dirti la verità, non ricordo altre performance. Sicuramente quel giorno erano presenti Eugenio Miccini e Franco Verdi, che sono intervenuti durante la mia performance. L’azione era stata pensata per stimolare gli spettatori ad intervenire. Avevo scritto un messaggio su un biglietto che avevo attaccato alla parete e avevo invitato tutti a leggerlo e dare una propria personale risposta.
Emanuele Dileone: Cosa intende con il titolo Natura della scrittura12?
Luigi Viola: Mi domandavo quali potessero essere la natura e le molteplici forme della scrittura. Inoltre, volevo riflettere su quale potesse essere la sorgente della scrittura. Non solamente il verbum che si fa parola scritta, ma anche il corpo, un’immagine o un’azione. Infatti, ricordo che in quegli anni teorizzavo che anche una pura immagine poteva essere poesia, nel senso di una scrittura poetica totale. Per esempio, i Fuochi in laguna sono poesia, immagini che possiedono un tasso elevato di poesia. Esasperavo dunque il concetto di poesia fino a confonderlo completamente con quello di immagine. Quindi, la natura della scrittura voleva essere una riflessione sul fatto che la scrittura e la poesia non scaturiscono solamente dagli elementi verbali tradizionali, ma anche da tanti altri – una sorta di espansione delle radici della scrittura al di fuori dell’ambito che la tradizione le ha attribuito.
Emanuele Dileone: Per quanto riguarda Madrigale serale13, realizzato nel 1978 a Ferrara, sono riuscito a ricostruire l’allestimento degli oggetti e dei materiali all’interno dello spazio e le azioni simboliche che si svolgevano. Dalle fotografie si può intuire che ci sono tre punti, illuminati dall’impianto luci, in ognuno dei quali erano disposti i tre performer.
Luigi Viola: Al centro c’ero io, alla mia destra mio figlio Matteo e alla mia sinistra era seduta mia moglie Luciana.
Emanuele Dileone: E le azioni in che ordine venivano eseguite?
Luigi Viola: All’inizio io traccio una linea di latte sul braccio di Luciana, poi dispongo lo zucchero e le lumache. Questa prima azione avviene nel silenzio. Ad un certo punto, il silenzio viene rotto da una canzone pop.
Emanuele Dileone: Si intitola Twist sotto la luna di Sergio Prandelli.
Luigi Viola: Un titolo che evoca apertamente un immaginario romantico – la luna –, adombrando la relazione d’amore con mia moglie. Ma, allo stesso tempo, si trattava di una musica “fuori luogo” e sopra le righe, un ironico accompagnamento alle parole d’amore pronunciate da un uomo in realtà molto narcisista e colmo di sé. Mio figlio Matteo, di pochi anni, quando inizia la musica si muove a ritmo, ballando per tutta la durata. Un faro è su Luciana seduta e un faro segue il bambino. Io mi stendo in posizione prona e quasi in posa vitruviana, al centro, davanti a due fari rossi che segnano lo spazio dell’azione. La musica si abbassa di volume e comincia il parlato. Alla fine dell’intervento vocale, preregistrato, si spengono i fari mobili e rimango steso solo con i due fari rossi accesi.
Emanuele Dileone: La voce è registrata? Lei non recita nulla dal vivo.
Luigi Viola: Sì, la voce è registrata. Ho usato spesso questa modalità perché consentiva di amplificare e spazializzare meglio la voce. Inoltre, la distanza tra l’atto del parlare e le mute azioni del corpo rende più evidenti le rispettive autonomie che si vengono a comporre proprio nel dispositivo performativo.
Emanuele Dileone: Ricorda se qualcuno aveva ripreso la performance?
Luigi Viola: Ricordo che Carlo Ansaloni aveva realizzato una ripresa video della performance, ma è andata perduta, non è stata più ritrovata. Anche Lisa Parolo mi diceva che quando è stato digitalizzato l’archivio video di Ferrara non è stato ritrovato nulla. Ci sono delle foto realizzate da Pierpaolo Fassetta che era presente alla performance.
Emanuele Dileone: Procediamo con Black Video14 che viene eseguita l’anno successivo in occasione della manifestazione Ferrara Video Show, nuovamente presso la Sala Polivalente. Purtroppo, ho potuto visionare una sola fotografia, probabilmente l’unica documentazione esistente. Ancora una volta ci troviamo in presenza di una video-performance. Sono riuscito a ricostruire l’allestimento della strumentazione video nello spazio, ma non l’azione che Lei svolgeva. In che cosa consiste?
Luigi Viola: L’azione è quella di produrre una macchia di inchiostro nero su un foglio di carta sul pavimento. Il video riprende in diretta l’espansione della macchia, fino a diventare totalmente nero. Contemporaneamente la videocamera compie uno zoom-in verso la macchia.
Emanuele Dileone: La riflessione che sta alla base di questa performance è riconducibile a quella dell’opera Video as no video (1978)?
Luigi Viola: Sì, certamente. È anche questo un video no-video. All’inizio della performance, le immagini sembrano poterci dire qualcosa in termini “narrativi” ma, nel momento in cui la macchia si espande fino a coprire l’intera inquadratura, l’immagine diventa solo nero, nessuna immagine.
Emanuele Dileone: Quindi la durata del video dipendeva dal tempo che la macchia impiegava ad espandersi?
Luigi Viola: Sì, esattamente.
Emanuele Dileone: Siamo ora giunti alle ultime tre performance/installazioni: La Camera di Norwid (1979)15 e Il sogno di Norwid (1980)16. Nel 1979, Lei partecipa all’evento Performance e video alla Galleria d’Arte Moderna di Ancona, curato da Lola Bonora e Marilena Pasquali. Ma La Camera di Norwid nasce come un’opera bidimensionale, giusto?
Luigi Viola: Al Premio Michetti di Francavilla avevo presentato una sequenza angolare di fotografie che occupava due pareti di una stanza. Le fotografie erano posizionate su spessi fogli di carta da acquarello, impregnati di colore azzurro. Solo successivamente alcune di esse vengono proposte come Trittico o dittico, e rimangono fissate in questa versione finale. Ma il lavoro che ho presentato per il Premio Michetti, su invito di Enrico Crispolti, è una strip di almeno cinque metri, ed è quindi costituito da molte più fotografie.
Emanuele Dileone: E per quanto riguarda le incisioni ad acquatinta con colofonia?
Luigi Viola: Le incisioni ad acquatinta dedicate a Norwid le ho realizzate con metodi sperimentali con Franco Montemagno, per una cartella del 1979 ispirata a Norwid e Venezia. Ma poi c’è stata un’altra mostra in cui ho presentato opere relative a La Camera di Norwid.
Norwid era diventato un ciclo, un contenitore di numerose opere realizzate con vari media e modalità le quali hanno come riferimento simbolico la figura di Norwid, che diventa il mio alter ego in quel periodo. Norwid sono io. Ricordo anche una esposizione dei miei lavori su Norwid al piano superiore della Fondazione Bevilacqua La Masa insieme a Claudio Ambrosini che – se ben ricordo – presentò in quell’occasione la sua Camera di Chopin.
Emanuele Dileone: Durante la manifestazione ad Ancona, Lei agisce in una stanza illuminata da lampade di Wood che illuminano alcune figure geometriche, costellazioni – che penso abbia disegnato prima della performance.
Luigi Viola: Sì, siamo in una stanza immersa nel buio, tipica ambientazione di Norwid, il quale opera sempre in un regime notturno dell’immaginario, e sulle pareti sono visibili delle tracce, dei segni, come geometrie segrete dell’anima, costruzioni psichiche che Norwid proietta nello spazio della propria stanza. E poi c’era anche un candelabro.
Emanuele Dileone: Certo, il candelabro che determinava la lunghezza della performance. Cioè l’azione iniziava nel momento in cui Lei accendeva il candelabro e il tempo necessario perché si esaurisse avrebbe determinato la durata della performance. Poi Lei, seduto su uno sgabello, iniziava a leggere un diario autobiografico. Potrebbe chiarire meglio la figura di Pausig17?
Luigi Viola: Pausig collaborò con me alla realizzazione della performance, ma costituiva semplicemente una presenza, non doveva fare nulla di particolare. Era in scena, come un’ombra del mio io, uno specchio silenzioso della mia solitudine, e non aveva alcun compito specifico se non esserci. Pausig, essendo un artista, rappresentava anche un mio alter-ego artistico. Anche lui, esattamente come me, si siede su uno sgabello e vi rimane assorto in silenzio durante tutta l’azione performativa-installativa.
Emanuele Dileone: Quindi la performance è costruita sia come un’installazione – perché sono presenti tutta una serie di oggetti – sia come azione che si costruisce attorno alla sua meditazione e lettura di questo diario autobiografico. E Pausig rimane seduto sullo sgabello nell’altro angolo della stanza.
Luigi Viola: Esattamente.
Emanuele Dileone: Una piccola precisazione sul titolo: Lisa Parolo, in un saggio su i tre centri di produzione18, riporta che il titolo di questa performance fosse in origine Norwid al buio. Successivamente si è passati a considerarla La Camera di Norwid.
Luigi Viola: Effettivamente l’installazione-performance di Ancona a Palazzo Bosdari si chiamava Norwid al buio e fa parte di quel ciclo di opere fotografiche, grafiche, installative e performative che variamente vengono chiamate La Camera di Norwid e Il sogno di Norwid. Sono variazioni sul tema, momenti diversi dentro un contenitore unico, un luogo poetico nel quale trovano espressione sperimentazioni con vari media artistici. Quindi, inizialmente presentata con quel titolo, è stata poi identificata con il nome del ciclo di cui faceva parte.
Emanuele Dileone: Per quanto riguarda l’ultima performance, Il sogno di Norwid, ho ricostruito lo spazio: la scala, tramite la quale si accedeva alla Galleria Unimedia, sonorizzata dal musicista Alessandro Pizzin ed illuminata da luce al neon rossa. Lo spazio per la performance nella galleria era allestito al buio, con solamente tre lampadine azzurre che illuminavano questo cristallo rotondo.
Luigi Viola: Sì, un oblò di cristallo con uno spessore molto importante (circa 10 cm), attraverso il quale si irradiava la luce.
Emanuele Dileone: L’oblò era considerato sia una finestra dalla quale entra della luce e Norwid osserva la realtà esterna, sia un pozzo nel quale il poeta polacco si rispecchia.
Luigi Viola: Devi sempre tenere a mente che Norwid è una figura che vive in questo regime notturno dell’immaginario, quindi c’è sempre l’attesa di una luce da fuori. Non a caso Norwid è spesso in attesa dell’alba e alcuni lavori si intitolano proprio “L’alba di Norwid”. Questa è anche la funzione della finestra sempre presente: uno squarcio nel buio, una ferita di luce. E, contemporaneamente, Norwid si specchia e si immerge in questo pozzo, che altro non è che il pozzo della sua anima.
Emanuele Dileone: E invece la proiezione delle opere Fuochi in laguna?
Luigi Viola: Io sono orientato verso la parete sulla quale vengono proiettate alcune opere della serie Fuochi in laguna, che rappresentano l’incendio notturno di piccoli isolotti della laguna, instabili perché creati dalla marea. Il pubblico è posto alle mie spalle o lateralmente.
Emanuele Dileone: Quindi il pubblico entra nello spazio e l’azione comincia con Lei che entra in quello spazio e recita un testo.
Luigi Viola: Io entro nello spazio, mi inginocchio, chino sull’oblò di cristallo. Rimango in contemplazione per qualche istante sul pozzo. Successivamente inizia la recitazione di un testo fortemente lirico e preregistrato, facendo sì che il suono avvolga il più possibile quadrifonicamente il pubblico, come nell’installazione della Scala sonora, senza avere una precisa e identificabile fonte. Il suono doveva dare il senso di una circolarità.
Emanuele Dileone: E la sua voce nella registrazione viene modificata?
Luigi Viola: Il testo è stato scritto da me, ma la voce non è la mia, è quella di un attore, Massimo Palladino, che più volte aveva collaborato con me. Poi è stata manipolata elettronicamente da Alessandro Pizzin, il quale aveva aggiunto una sonorità cupa e tetra di sottofondo.
Emanuele Dileone: E la performance si concludeva nel momento in cui la registrazione terminava? Nel momento in cui Lei era chino sull’oblò, sulla parete dietro di Lei si venivano a creare delle zone di ombra?
Luigi Viola: Sì.
Emanuele Dileone: Vorrei capire cosa lo spettatore vedeva quando si sedeva sulla panchina colorata di viola recante una targa in ottone con dei versi di Alice in Wonderland, nell’’installazione I looked for… (da Alice)19 al Palazzo Reale di Milano nel 1980.
Luigi Viola: Nella prima versione del progetto si sarebbe dovuto vedere un video in proiezione, ma nella versione definitiva dell’installazione, davanti alla panchina, è posizionato un televisore con un video-registratore. Una soluzione conforme alla poetica dell’opera, che presenta immagini di vita domestica, famigliare, e il mondo dell’infanzia.
Emanuele Dileone: Nel catalogo della manifestazione è riportata l’installazione e tutti gli elementi che la costituiscono: le fotografie, la panchina e un video della durata di quattro minuti, a colori e con il sonoro. Di seguito sono riportate le ultime produzioni video con la Galleria del Cavallino, del biennio 1978-79: Video as no video20, Urlo21, Do you remember this film?22, Frammenti di uno spazio interiore23. Dopo l’elenco dei film è riportata la durata complessiva di questi quattro video, circa 15 minuti. Quello che ho ipotizzato è che nel monitor veniva, in un primo momento, mostrato il video dell’installazione e, successivamente, i quattro video elencati. Luigi Viola: Nella sala dell’installazione il pubblico vedeva solamente Do you remember this film? Non ricordo bene ma può essere che Vittorio Fagone, il curatore dell’esposizione, avesse allestito anche uno spazio per la proiezione dei video. Ma sto ipotizzando perché non ricordo.
- Questa intervista è un estratto da Emanuele Dileone, Un’osservazione trasognata della realtà. Ricostruzione e riproposizione attuale delle performance e installazioni di Luigi Viola (1970-1980), tesi di laurea magistrale in Teatro e arti performative, Università IUAV di Venezia, a.a. 2020/21, tutor Prof.ssa Malvina Borgherini (Università IUAV di Venezia), Dott.ssa Lisa Parolo (ricercatrice indipendente). Raccolta dallo scrivente in più sessioni, l’intervista si è svolta a Mestre de visu nei giorni 27 gennaio e 7 febbraio 2020 ed è poi proseguita in modalità onlinenei giorni 13 marzo, 23 aprile e 1 agosto 2020. Infine, è stata revisionata in occasione di questa pubblicazione. ↩
- A 5’ writing, 1977, 1/2” open reel, B/N, sonoro, 5’ 29”, prodotto dalla Galleria del Cavallino, Venezia. Quattro tempi di scrittura associati ad altrettanti movimenti fisici in progressione sonora. La parola ricondotta al gesto e al corpo come al terreno, atto a garantirne la sopravvivenza. Nel tempo reale della videoscrittura, il tempo dell’azione poetica coincide con il tempo del lettore, riflettendolo e scandendolo, introducendo specularmente il ritmo biologico della vita nell’esperienza del linguaggio e della scrittura. ↩
- Nel 1973, durante l’inaugurazione della mostra personale I proverbi – Il disagio della coscienza presso la Galleria Pilota di Milano, Viola presenta la performance In quibus membris corporis humani sacra religio. Il film-documento (16 mm, 8’10’’, B/N, muto) viene realizzato da un gruppo di giovani appassionati di cinema, il Gruppo Parodista, chiamato dai direttori della galleria. Il corpo nudo è centrale nell’operazione dell’artista, innanzitutto come corpo fisico e non metafisico o spirituale, secondo la concezione religiosa cattolica. Su questo corpo tangibile e fisico, che diventa superficie e luogo della scrittura, vengono segnate alcune zone o punti riferibili ad una qualche sacralità, secondo una concezione più classica del termine. Infatti, la base di questo lavoro è un testo di Plinio il Vecchio, tratto dalla sua Naturalis historia (Osservazioni sulla Natura, 77-78 d.C.). Viola individua nel testo sei frasi corrispondenti ad altrettante parti del corpo: ginocchio destro, ginocchio sinistro, mano destra, lobo sinistro, orecchio sinistro, mento. Secondo quest’ordine, l’artista compie l’azione andando a circoscrivere quella determinata parte del corpo e poi scrivendo all’interno, in maiuscolo con un pennarello nero, delle sigle composte dalle iniziali delle frasi scelte. Una volta terminata la scrittura di questi acronimi l’azione si conclude. ↩
- I Monocromi di poesia possono essere considerati uno degli esiti di quella ricerca sperimentale sul linguaggio poetico che costituisce un aspetto fondamentale dell’attività artistica di Viola. Essi sono il frutto di una sua riconsiderazione del valore linguistico di alcuni materiali poetici che l’artista aveva indagato, nei primi anni Settanta, all’interno di un’analisi dei rapporti parola-immagine-materia, nella sperimentazione di comportamenti poetici fondati sul rapporto di parola e gesto, di segno verbale e iconico-gestuale. ↩
- Who is Luigi Viola, 1976, 1/2” open reel, B/N, sonoro, 12’, prodotto dalla Galleria del Cavallino, Venezia. Un gioco, un sogno forse, uno scambio di identità con Dalibor Martinis, Sanja Iveković e Goran Trbuljak. Ma chi è Luigi Viola? L’uomo che prega, quello che si rade la barba, quello che beve, la ragazza bionda che gioca a ping-pong? Questa è solo una tracia da cui partire. ↩
- La Nostra Terra, Italian Video from 1970 to today, early works by Franco Vaccari and Luigi Viola, a cura di Valentina Bonizzi, Stills Gallery Scotland’s Centre for Photography, Edinburgh, UK. ↩
- Cancellazioni, 1975, 1/2” open reel, B/N, sonoro, 20’, prodotto da C.A.V., Venezia. Il video è un lungo reading di poesia, con citazioni di testi della letteratura dell’Ottocento e del Novecento, e si conclude davanti ad un’entrata accanto alle Galleria dell’Accademia, dove Viola scrive il messaggio: «la poesia modifica solo sé stessa». ↩
- Diario pubblico e segreto, 1975, 1/2” open reel, B/N, sonoro, 20’, prodotto da C.A.V., Venezia. Il video consiste nella documentazione di un’azione dell’artista mentre porta in contesti dimenticati il simbolo della falce e martello, a significare che la rivoluzione doveva sorgere dalla coscienza della gente comune. ↩
- Voyage, 1977, audiotape e performance, Venezia-Torino. Janus, curatore e critico d’arte, organizza un’esposizione collettiva, intitolata Avanguardia Avanguardia, presso la Sala delle Colonne all’interno del Teatro Gobetti di Torino. Viola viene invitato a prendere parte alla sezione riservata alle performance e installazioni. L’artista progetta Voyage, una performance “pubblica”, agita da Viola, e un’installazione nel momento in cui sarebbe stata esposta. L’azione era la registrazione sonora di alcuni tratti del viaggio dell’artista in treno dalla stazione di Venezia Santa Lucia a quella di Torino Porta Nuova. Viola esegue la performance il giorno dell’inaugurazione della mostra e, giunto all’interno dello spazio espositivo riservatogli, fissa al muro quattro polaroid scattate al momento della partenza e sistema il registratore, riproducendo il contenuto sonoro. Da una parte l’opera può essere considerata come un reportage sonoro ed oggettivo del viaggio di un treno e dei passeggeri che esso conduce; d’altra parte, invece, può essere la narrazione di un viaggio immaginario, il transito di una persona da un punto all’altro nello spazio, in una chiave fantastica e soggettiva della realtà oggettiva. Questo viaggio fantasioso della mente coinvolge prima di tutto l’artista in prima persona; in seguito, la sola presenza dell’elemento sonoro della registrazione permette una maggiore amplificazione dell’immaginazione fantastica da parte del pubblico. Non potendo vedere, ma solo ascoltare, il fruitore dell’installazione può generare immagini nella sua mente anche discostate dalla realtà. ↩
- Temporidentitàs, 1977, 1/2” open reel, B/N, sonoro, 10’ 45”, prodotto dalla Galleria del Cavallino, Venezia. L’opera, presentata durante la mostra personale L’identità/il tempo organizzata presso la Galleria del Cavallino nel marzo del 1977, risente ancora delle riflessioni inerenti alle tematiche dell’identità e del tempo. L’idea principale è quella della moltiplicazione ad libitum della propria immagine nello spazio e nel tempo, infatti nei titoli di testa del video si legge «moltiplicarsi in tempo reale ogni volta che». Viola decide di coinvolgere per l’esecuzione di questa video-performance due studenti, Carolina Borgoni e Vincenzo Bugno. L’azione dei tre performer consiste nel muoversi all’interno dello spazio creatosi tra le tre videocamere e scattare fotografie a sé stessi, attraverso lo specchio, o agli altri performer. L’azione è scandita da un metronomo meccanico posto sul pavimento, al centro dello spazio. L’ambiente della galleria viene predisposto utilizzando i seguenti strumenti: tre videocamere, due monitor a tubo catodico, tre macchine fotografiche, una centralina video, un microfono, un metronomo meccanico e uno specchio. Tutte e tre le videocamere trasmettono il loro flusso di immagini a una regia video mobile, attraverso la quale è possibile “switchare” e realizzare un continuo montaggio live. L’operatore del mixer video era Paolo Cardazzo. ↩
- Diamonologo interfonico, 1977, audiotape e performance, Galleria d’arte moderna, Bologna. Nel giugno del 1977, Viola prende parte alla I Settimana Internazionale della Performance, curata da Renato Barilli presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna. L’opera è una video-performance che fa uso di una strumentazione video costituita da videocamere a circuito chiuso, mixer-video, quattro monitor. La performance viene eseguita da Viola, solo all’interno della sala principale della galleria. L’artista è seduto su una sedia e davanti a lui sono disposti un tavolo, con sopra una scacchiera con i pezzi da gioco, e un’altra sedia vuota. L’azione performativa era ripresa da due videocamere – manovrate da due operatori – posizionate diagonalmente rispetto all’artista; le immagini venivano trasmesse in diretta a quattro monitor con schermo a tubo catodico all’interno di un black box posto all’esterno dell’edificio. L’artista aveva indicato di riprendere alcuni particolari del corpo: il movimento delle mani, il piede, la bocca, l’occhio e l’orecchio. Il pubblico, escluso dalla sala, poteva assistere alla performance osservando le immagini dai quattro monitor disposti su alti cavalletti, pensati per permettere la visione anche ad un pubblico relativamente numeroso. Diamonologo interfonico si costruisce come una rêverie parlata, ossia una fantasticheria, su uno dei concetti basilari della cultura occidentale: l’Eros. La dicotomia tra l’Amor sacro e l’Amor profano è oggetto dell’azione performativa, una discussione tra l’artista e un immaginario Pico della Mirandola. Entrambe le voci si ascoltano attraverso una registrazione su nastro magnetico. La performance, che dura circa un’ora, oltre che dalla discussione “interfonica” con Pico della Mirandola (Amor sacro, mentre Viola incarna l’Amor profano) comprende una partita a scacchi tra l’artista e l’immaginario compagno. Sul piano della scacchiera Viola muove i pezzi degli scacchi del re e della regina, le cui figure astratte «impersonificano l’eterna lotta mai conclusa tra i due principi maschile e femminile». Lo scontro sulla scacchiera, sulla quale si alterna un gioco “amoroso” di desiderio e possesso, di repulsione ed attrazione, si conclude con un finale cannibalistico, perché il vincitore è colui che riesce a “mangiare” tutti i pezzi dell’avversario. L’azione della partita si protrae per tutta la durata della discussione tra l’artista e Pico della Mirandola e, una volta terminata la registrazione, la performance si conclude. ↩
- Natura della scrittura, 1977, performance, Palazzo della Ragione, Trento. Nel 1977, Viola partecipa al convegno Arte come impegno sociale: la poesia, a cura di Sergio Bernardi, Maria Grazia Lutzemberger, Sandro Togni, presso il Palazzo della Regione di Trento. Durante la manifestazione ogni artista è invitato a proporre una propria riflessione sul tema dell’incontro. La relazione di Viola, Forma e contenuto della poesia attraverso il corpo e il video, descrive le proprie esperienze artistiche performative e video dal 1973 al 1977. Nell’ambito di quell’iniziativa, Viola realizza inoltre un’azione performativa poetica, Natura della scrittura, che prevede la diretta partecipazione del pubblico. Lo svolgimento dell’azione non è complesso: dopo aver introdotto l’oggetto della riflessione, ossia la relazione tra poesia e corpo, Viola scrive una breve frase su un foglio di carta che era stato attaccata alla parete. La frase deve servire come suggerimento per il pubblico, il quale era stato invitato ad alzarsi, a leggere la proposizione e a proprio piacere lasciare delle considerazioni, scritte su altrettanti bigliettini. Tutti i presenti prendono parte con entusiasmo e, in conclusione dell’azione, Viola raccoglie alcune decine di bigliettini e li legge uno alla volta ad alta voce, prima di fissarli alla parete. ↩
- Madrigale serale, 1978, audiotape e performance, Sala Polivalente, Palazzo Massari, Ferrara. Nel giugno del 1978, Viola, la moglie Luciana e il figlio Matteo presentano la performance Madrigale serale presso la Sala Polivalente di Ferrara. Il lirismo della performance ha come principale riferimento l’amore, in particolare, in questa situazione, la tipologia d’amore espresso è quella del quotidiano, del domestico, quella che riguarda i rapporti interpersonali all’interno del gruppo familiare. L’opera mette in scena l’infanzia e il rapporto padre-figlio: Viola riflette sul dualismo di essere allo stesso tempo figlio e padre del proprio figlio. A questo proposito, infatti, l’amore domestico complica le combinazioni nei rapporti tra i performer: se il figlio Matteo è un Edipo che ama la propria madre, Viola è Laio, ma se Matteo rappresenta Viola in quanto figlio, risulterà essere anch’esso Edipo, un Edipo rovesciato. Le azioni e gli oggetti sono stati pensate dall’artista come simboli-archetipali dell’amore quotidiano e familiare, a causa della riflessione artistica che Viola portava avanti in quegli anni sull’unione tra esperienza artistica e vita. I materiali necessari per la realizzazione dell’opera sono: tre proiettori per diapositive, un magnetofono a cassetta, impianto luci, due microfoni mobili, un microfono fisso, una sedia, una bacinella metallica, due litri di latte, un po’ di zucchero, alcune lumache vive e due torce da ferroviere. Altro elemento fondamentale della performance, attorno al quale l’azione è costruita, è un breve testo poetico nel quale vengono elencate affermazioni che iniziano con «Io sono l’uomo che…» e, in un secondo momento, sono descritte alcune caratteristiche poetiche della parola “infanzia”. Il testo è interpretato da Viola modulando la propria voce su livelli espressivi diversi e introduce un paradosso verbale tra le parole molto poetiche e il tono fiero e mascolino con il quale le pronuncia. Il testo è a sua volta accompagnato da due brani musicali: il primo è Twist sotto la luna di Sergio Prandelli, il secondo è un tango. L’azione performativa comincia nel silenzio. Viola si avvicina alla moglie e le segna il braccio con il latte, come a volerle evidenziare la vena che percorre il braccio. Il latte gocciola sul pavimento. Successivamente, l’artista dispone una fila di circa dieci lumache vive e un piccolo mucchio di zucchero davanti a sua moglie. A questo punto, nel momento in cui inizia la registrazione dei brani musicali e il testo recitato, Matteo comincia a muoversi a ritmo di musica e Viola si dispone al centro dello spazio, disteso in posizione prona. Una volta terminata la registrazione, si spengono le luci che creavano tre spot sui tre performer e si accendono le due torce da ferroviere, disposte ai lati di Viola. ↩
- Black video, 1979, video-performance, Sala Polivalente, Palazzo Massari, Ferrara. Nell’autunno del 1979, Lola Bonora organizza la manifestazione Ferrara Video Show presso la Sala Polivalente di Palazzo Massari. Viola realizza l’opera Black video, una video-performance che prevede una strumentazione composta da due videocamere e un proiettore. L’artista dispone un foglio di carta sul pavimento e lo riprende con una videocamera, mentre una luce spot illumina la scena. Le immagini riprese erano proiettate in tempo reale su uno schermo posto al centro della sala, attraverso il quale il pubblico osservava l’azione. La performance si costruisce a partire dall’azione dell’artista che crea una macchia di colore nero sul foglio di carta. Successivamente Viola, operando alla videocamera, riprende l’espandersi del colore su tutto il foglio e compie un lento zoom-in in modo da far apparire tutta l’immagine nera. E l’azione termina. L’idea dietro a questa video-performance è legata concettualmente a un’opera dell’anno precedente, Video as no video. Se da un lato il soggetto dell’opera-video è l’anima del video stesso, senza mostrare nient’altro che l’obiettivo della videocamera, d’altro lato la video-performance mette al centro l’immagine nera, considerata come l’assenza di immagine in un video. ↩
- La camera di Norwid, 1979, performance, Galleria d’arte moderna, Ancona. Viola viene invitato a partecipare all’evento Performance e videotape, curato da Marilena Pasquali in collaborazione con Lola Bonora presso la nuova Galleria d’Arte Moderna di Ancona. La performance di Viola non viene riportata con il titolo solitamente utilizzato, La Camera di Norwid, ma con Norwid al buio. La performance-installazione è realizzata in collaborazione con l’artista Sergio Pausig. Lo spazio messo a disposizione nella galleria era completamente al buio, fatta eccezione per quattro punti luce che illuminavano parzialmente la stanza: un cero, posizionato in prossimità dell’angolo destro sul fondo della stanza; due lampade di Wood, posizionate sul pavimento, una addossata a metà della parete centrale e la seconda nell’angolo sinistro sul fondo; una lavagna luminosa, posta sulla sinistra rispetto al centro della stanza, che proiettava sulla parete centrale una schermata bianca, vuota di segni o parole. Sulle tre pareti erano stati precedentemente tracciate le figure di solidi con un inchiostro fluorescente che, con l’accendersi delle lampade di Wood, emergevano alla vista del pubblico. Viola è seduto su uno sgabello nell’angolo destro sul fondo della stanza, mentre Pausig, anch’esso seduto, occupa l’angolo opposto. La performance ha inizio con l’accensione della candela di cera rossa, posta su di un alto piedistallo. Il tempo che avrebbe impiegato la candela per sciogliersi avrebbe determinato la durata della performance. Viola–Norwid, isolato nell’angolo, legge il proprio diario, sussurrando la propria pena d’amore. La figura di Pausig, immobile durante l’azione, rappresentava l’alter-ego dell’artista in scena. Una volta consumata la candela, il performer smette di leggere e l’azione si conclude. ↩
- Il sogno di Norwid, 1980, audiotape e performance, Galleria Unimedia, Genova. Nel febbraio 1980, la Galleria Unimedia di Genova, diretta da Caterina Gualco, organizza una mostra personale dedicata all’artista, il quale presenta solamente una performance-installazione. L’azione performativa è composta da due momenti distinti spazialmente: la Scala sonora, un’installazione realizzata sulla scala della galleria che conduceva il pubblico al piano superiore, dove era ospitata la performance Il sogno di Norwid. L’opera performativa raffigura il luogo dell’immaginario poetico, portato ai limiti di una manipolazione allucinatoria, restituito in immagini costruite da ampie zone d’ombra e lampi di luce. L’ambiente, che ancora una volta costituisce una parte fondamentale dell’opera, è immerso nel buio e caratterizzato dalla presenza sul pavimento, al centro, di uno oblò spesso di cristallo che emana una luce celeste, perché illuminato lateralmente da tre lampadine azzurre. Sulla parete di fronte all’artista sono proiettate da diapositiva le nuove opere Fuochi in laguna (1979-80). In questa performance Viola tenta di raffigurare Norwid durante gli ultimi giorni di vita, in una situazione e ambientazione ipnotica e onirica che rende indistinguibile comprendere quando il poeta scruta la propria stanza e quando, invece, si incanta per le proiezioni di colore e luce. L’azione della performance incomincia con l’entrata in scena di Viola-Norwid, il quale si inginocchia davanti al cristallo, inclina il corpo in avanti e lo osserva con lo sguardo fisso alla magia ipnotica della luce emanata. Dopo alcuni istanti comincia a sentirsi una registrazione che avvolge tutta la stanza, composta dalla sonorizzazione di Pizzin e da una voce, modificata, tetra e molto profonda, che recita un testo poetico di Viola. Durante la registrazione il performer, nella stessa posizione, muove leggermente il proprio corpo in diverse direzioni, formando alcune immagini indistinguibili di ombra all’interno dell’area di luce che decora la spoglia parete. L’artista, invece, può solamente osservare i micro-movimenti luminosi che avvengono sulla superficie del cristallo. Infine, Viola-Norwid si ferma, non agisce, non più performer sospende il suo movimento per lasciar spazio all’azione del contemplare. Una volta conclusa la registrazione, Viola-Norwid esce di scena e la performance termina. ↩
- Sergio Pausig (Gorizia, 1954) vive e lavora tra Palermo e Venezia. Dal 1972 ha esposto in mostre personali ed ha partecipato a importanti rassegne in Italia ed all’estero. In particolare, nel 1979 presenta alla Galleria del Naviglio di Milano Machine Portrait, evento ideato con Renato Cardazzo. Dal 1987 ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Venezia e dal 1995 è titolare della cattedra di Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Palermo, coordinatore dei corsi di Progettazione della moda, Design del Gioiello e Design dell’Accessorio. Nel 1995-1996 diventa professore a contratto all’Università I.U.A.V. di Venezia. Negli anni 2000-2010 è curatore del MAD, Museo Laboratorio di Gibellina. Viola e Pausig prendono parte – assieme a Manuela Cavalieri e Giampaolo Giordano – alla mostra collettiva dedicata agli artisti selezionati dalla Fondazione Bevilacqua La Masa come assegnatari degli studi presso Palazzo Carminati, a Venezia. ↩
- Lisa Parolo, Il Centro Video Arte, la Galleria del Cavallino e art/tapes/22, in Ead. – Cosetta G. Saba – Chiara Vorrasi (a cura di), Videoarte a Palazzo dei Diamanti. 1973-1979. Reenactment, catalogo della mostra, Sale Benvenuto Tisi da Garofalo, Palazzo dei Diamanti di Ferrara, 26 settembre – 18 ottobre 2015, Fondazione Ferrara Arte Editore, Ferrara 2015. ↩
- I looked for… (da Alice), 1980, installazione, Palazzo Reale di Milano. Nel 1980, il critico d’arte Vittorio Fagone curò un’esposizione al Palazzo Reale di Milano: Camere Incantate. Espansione dell’immagine. Video, cinema, fotografia e arte negli anni ‘70. Viola, invitato a partecipare, presenta l’installazione I looked for… (da Alice, 1977). Viola ottiene dal comune di Milano una panchina in ghisa, che vernicia di colore viola. Al centro dello schienale viene fissata una lastra ovale di ottone con inciso la frase: I looked for soap-bubbles I looked for butterflies… that summer evening long ago, a-sitting on a gate. Nella stanza a disposizione l’artista dispone la panchina e le quattro fotografie da un lato, su una delle due pareti più lunghe, e di fronte il televisore e il video-registratore. Dal progetto originale Viola avrebbe voluto proiettare su una lastra d’acciaio le immagini dei giochi intimi tra Matteo e Luciana, riprese nel filmato in super-8 millimetri, e non il video Do You Remember This Film? Probabilmente, attraverso l’installazione, Viola avrebbe voluto ricreare una situazione simile a quella ripresa in Do You Remember This Film?, ossia quella di una persona, appartata, che guarda un filmato utilizzando un proiettore. Purtroppo, questo progetto non fu realizzato nella sua interezza, visto che la proiezione su lastra di metallo fu sostituita da una videoregistrazione trasmessa su un monitor a tubo catodico. Per quanto riguarda, invece, cosa sia stato trasmesso attraverso il monitor all’interno dell’installazione, Viola, ricorda nel progetto finale di aver deciso di impiegare non l’intero video Do You Remember This Film? ma uno dei materiali realizzati in super-8, trasmesso in forma video con l’aggiunta dell’elemento sonoro del testo poetico in inglese, nel quale ogni parola legata al mondo dell’infanzia compone l’alfabeto. ↩
- Video as no video, 1978, U-matic, B/N, colore, sonoro, 2’ 52”, prodotto dalla Galleria del Cavallino, Venezia. Un’indagine sulla natura del mezzo videografico. L’assenza di un’azione nel video non significa la sua negazione, al contrario: quanto minore spazio è concesso al movimento dell’immagine, tanto più largo è il movimento dell’immaginario. Il video è, inoltre, un tentativo di scavare dentro il corpo del video stesso alla ricerca della sua anima. ↩
- Urlo (Groaning), 1978, B/N, sonoro, 5’ 20”, prodotto dalla Galleria del Cavallino, Venezia. Una presenza, racchiusa in un’immagine, che rinvia all’infanzia, scatena il flusso verbale della memoria e dell’inconscio soggettivo, riduce la parola a lamento indistinto, viscerale, emergente dal profondo come materia psichica informe. ↩
- Do you remember this film?, 1979, U-matic, colore, sonoro, 2’ 44”, prodotto dalla Galleria del Cavallino, Venezia. Un frammento intensamente lirico. Un film (movie) nel video per creare un tunnel della memoria. Un alfabeto scandito da una voce dolcissima, nel quale ogni lettera corrisponde ad una parola carica di risvolti emotivi che rimanda al mondo dell’infanzia, ai suoi significati ancestrali, ai suoi onirismi, alla sua magia, ai suoi misteri, ai suoi nonsense. ↩
- Frammenti di uno spazio interiore, 1980, U-matic, colore, sonoro, 3’ 12”, prodotto dalla Galleria del Cavallino, Venezia. In collaborazione con Pier Paolo Fassetta, il video mostra alcune immagini suscitate dall’incontro tra realtà e immaginazione. Raccolte nello spazio mentale del racconto, esse cambiano, allo stesso modo delle percezioni e degli stati della mente. La poesia dell’espressione del corpo e la materia che è libera di agire nel vuoto si mescolano nel reciproco sentimento della natura. ↩